ROSA FEOLA, STAR DELLA LIRICA E DONNA. PARLANDO DI EMOZIONI IN CONVERSARI CON UN’AMICA

di Cecilia Gobbi
Rosa Feola, soprano casertano, si è diplomata al Conservatorio Giuseppe Martucci ed ha perfezionato la sua formazione all’Opera Studio dell’Accademia di Santa Cecilia con Renata Scotto, Cesare Scarton e Anna Vandi. Ha debuttato a 23 anni ne Il viaggio a Reims diretta da Kent Nagano e l’anno dopo è assurta all’attenzione internazionale vincendo il secondo premio assoluto, il premio speciale Zarzuela e il premio Rolex al concorso Operalia di Placido Domingo. Negli anni successivi ha debuttato in numerosi ruoli protagonisti (L’elisir d’amore, Don Pasquale, Rigoletto, Le nozze di Figaro, La Sonnambula) nei maggiori teatri italiani e europei: nel 2012 ha debuttato negli USA diretta da Riccardo Muti con il quale ha mantenuto una lunga collaborazione. L’interpretazione più recente, in programma fino metà luglio, la vede nel ruolo di Liù nella nuova produzione di Turandot del Teatro alla Scala diretta da Michele Gamba con la regia di Davide Livermore
Rosa, allegra e affettuosa, tornata a Milano da una visita a casa tra una recita e l’altra di Turandot mi racconta il suo vissuto e le sue emozioni di artista e di donna
Sono appena rientrata da un breve viaggio a casa dove ho trascorso qualche giorno perché mi sento terribilmente sola quando sono lontana dalla mia famiglia; ora sono molto contenta mentre se non l’’avessi fatto mi sarei depressa.
Così Invece ti sei ricaricata per la recita di domani. Ma dimmi, andare in scena oggi continua a suscitarti le stesse emozioni degli esordi o l’esperienza maturata in questi anni di brillante carriera le ha in qualche misura attenuate o modificate?
Le emozioni il teatro le dona sempre e questo è indiscutibile: non si può andare in palcoscenico senza provare delle emozioni però col tempo cambiano e le mie sono sicuramente cambiate rispetto al passato. Nei primi anni di carriera l’emozione in palcoscenico può essere dettata dall’ansia di dimostrare le proprie capacità o dalla preoccupazione di non essere all’altezza delle aspettative ma con il tempo la natura dell’emozione si evolve per effetto dell’esperienza teatrale. Quando ci si cala in un personaggio se ne vivono situazioni e sentimenti come nella vita reale, l’emozione nasce dalla fusione e dallo scambio tra quelle del personaggio e quelle dell’interprete. È una dinamica emotivamente impegnativa ma di grande arricchimento.

L’opera però propone anche personaggi lontani dalla nostra realtà, come ad esempio Liù, in cui può essere più difficile immedesimarsi. Sbaglio o per te questa è la seconda volta che l’interpreti?
No, è la terza, l’ho già cantata a Zurigo e a Napoli, ma questa produzione è diversa e mi è piaciuta moltissimo; ho un amore particolare per Davide Livermore e con lui mi sono sempre trovata in sintonia. Immedesimarmi in Liù non è stato semplice; ho messo a confronto il mio sentire e il suo chiedendomi se avrei mai agito come lei e la risposta è stata: no, assolutamente no. Nella società moderna che incoraggia la donna a farsi valere sono incomprensibili la sua rinuncia e lo spirito di sacrificio, per giunta spinto fino al suicidio. Alla fine, però ho trovato, in piena intesa con Livermore, la chiave di lettura di Liù nella forza e nel coraggio estremo con cui sfida e affronta Turandot.
Condividere la visione è fondamentale ma che avviene se devi confrontarti con un regista che ha un’idea totalmente diversa da quella che ti sei fatta tu del personaggio?
Ci sono due opzioni: se il regista riesce a convincerti della sua idea, per me diventa una sfida a fare qualcosa di diverso da quello che avevo in mente, ed è un’esperienza stimolante, di crescita. Ma se l’idea del regista traballa e non mi convince il risultato è una frustrazione e quindi non vedo l’ora che finisca la produzione. Ci deve essere sempre un colloquio, una possibilità di confronto: se non c’è confronto è finita. Con Livermore l’intesa è venuta naturalmente. Pensa che aveva immaginato Liù con l’aspetto fisico di una studentessa manga giapponese ma appena abbiamo iniziato a lavorare e ho cominciato a muovermi in scena, l’idea del personaggio ha preso corpo ed è cambiata tanto che Davide ha subito eliminato il costume già pronto e ne ha fatto fare uno nuovo. Intendersi così sul lavoro è bello perché vuol dire creare qualcosa insieme. E quando l’artista ci crede anche lo spettacolo è più credibile. Lo spettacolo deve nascere dalla collaborazione di una squadra e non basarsi sul divismo individuale che senza tutta la macchina del teatro funziona relativamente.


In sostanza, mi pare di capire che sei soddisfatta di questa esperienza?
Sono felicissima. Ero già felicissima quando mi hanno detto che avrei cantato con un cast strepitoso – Anna Netrebko come Turandot, Yusif Eyvazov come Calaf – quindi l’ho considerata subito un’occasione imperdibile per la possibilità di lavorare con grandi artisti e di assorbirne lo spirito, l’intelligenza e il carisma scenico. Io mi sento travolta da questa esperienza, soprattutto nella scena con Turandot in cui la fronteggio e quasi l’aggredisco. Per giunta Anna proprio in quella scena mi ha detto “brava” e mi ha fatto venire la pelle d’oca ripetendomelo tutte le sere in palcoscenico.
Eppure, non è la prima volta che lavori con grandi artisti, dovresti esserci abituata. La tua è stata ed è una carriera folgorante, volata subito dopo l’Opera Studio con Renata Scotto. Che puoi dirmi della tua esperienza con lei
L’esperienza con Renata è stata meravigliosa, assolutamente non paragonabile ad altre. Renata è stata la mia massima fonte di ispirazione, mi ha fatto capire che cosa è il teatro, che i cantanti sono degli attori e che testo e musica sono in stretto rapporto. Ho imparato ad amare il teatro perché ho conosciuto lei. I suoi insegnamenti mi hanno dato un indirizzo e la capacità di distinguere tra stili diversi, mi hanno trasmesso il valore del gusto e della bellezza. Io cercavo sempre di emularla, studiavo tutte le sue registrazioni, volevo assolutamente essere come lei. Un giorno le dissi “Signora, vorrei tanto riuscire a fare Musetta come l’ha fatta lei al Met nella produzione di Zeffirelli”, Renata mi guardò e mi disse “Tu devi essere te stessa – apprezzo il complimento – ma tu devi trovare la tua via al canto e all’interpretazione”. È stato il più grande insegnamento che mi ha dato! Perché è giusto farsi indirizzare, studiare la tecnica e lo stile, ma una volta imparate le basi, devi metterci del tuo, devi credere in quello che fai, altrimenti sarai sempre una copia di qualcun altro e non avrai una tua credibilità.
Crederci, metterci del proprio è quello che rende unico e celebre un artista, ferma restando una indispensabile formazione adeguata, e tu ne sei un esempio. Hai già calcato con successo i maggiori palcoscenici del mondo, dal Metropolitan alla Royal Opera House, dal Lyric di Chicago all’Opera di Roma solo per citarne alcuni: la tua è la carriera di una star internazionale! È certamente gratificante ma può essere stressante. Tu come la vivi?
Tu dici “star internazionale” ma io non mi sento così, è una definizione a cui non penso mai e in cui non mi riconosco; piuttosto mi sento come una persona che sta facendo un percorso e cerca di dare il meglio di sé. E me lo ripeto spesso, forse anche a mo’ di rassicurazione per ridurre il peso di dover essere sempre all’altezza, un peso che rischia di schiacciarti. Cerco sempre di ricordarmi che sono una che ha studiato, ha fatto esperienze e vuole trasmettere quello che ha acquisito studiando con una grandissima interprete. Voglio donare le emozioni che provo e che nascono da tutto questo lavoro. Per questo mi preoccupa e dispiace che si stia un po’perdendo la tradizione del belcanto italiano a favore del divismo e di esibizioni d’effetto. L’applauso del pubblico dovrebbe nascere dalle emozioni che il canto suscita, non dai soli “effetti speciali” anche se apprezzabili ma fini a sé stessi.
L’anno scorso a Pesaro ci siamo viste dopo il tuo concerto e tu eri felicemente in compagnia di tuo marito e tua figlia, la piccola Renata. Come riesci a gestire la tua carriera da star con la vita privata e a dividerti tra lavoro e famiglia?
Provo in tutti i modi ad essere presente, a godermi mia figlia, a non perdere le tappe fondamentali della sua crescita: è lei che mi ha fatto diventare la donna che sono oggi. Mi ha cambiato totalmente la visione della vita quando è nata. Mi sono un po’ svegliata da un sogno e posso dire che mia figlia mi ha insegnato cos’è la vera vita. Adesso tra una recita e l’altra preferisco viaggiare per andare a vederla; in un altro momento avrei scelto di restare tranquilla a casa per non stancarmi e non esporre a pericoli la voce. Ora ho capito che il solo poterla abbracciare e passare del tempo con lei mi dà più carica che il dormire tutto il giorno e rilassarmi.
La nascita di Renata ha naturalmente segnato una svolta ma quanto è facile o difficile conciliare la tua vita familiare con le pressioni dei teatri e le scritture che man mano ti si presentano?
Vuoi dire quanto influisce sulla decisione di accettare o rinunciare a un contratto? Adesso che Renata è ancora piccola, la situazione è gestibile abbastanza facilmente. Se sono affiancata dalla collaborazione di qualcuno che possa stare con me e con lei, che sia marito, mio fratello o una baby-sitter, la porto con me nei viaggi di lavoro ma sempre organizzandomi per rispettare le esigenze di una bambina: il bisogno dei suoi spazi, di incontrare altri bambini, di vivere la sua età. Per ora mi regolo in questo modo ma ho anche ridotto la mia attività accettando solo gli impegni per i quali vale la pena di sacrificarsi. Quando Renata crescerà mi adeguerò alle situazioni che si presenteranno. Non credo sia utile cercare di pianificarle troppo in anticipo.

Un’ultima domanda: so che di recente ti sei impegnata nella formazione di giovani cantanti facendo Masterclass e Opera Studio; mi piacerebbe capirne il motivo e quanto questa attività ti dia soddisfazione
Più che soddisfazione direi che mi fa piacere creare per dei giovani la possibilità di cantare in palcoscenico. La masterclass non può dare una vera e propria formazione dato che in quattro giorni non si può creare un percorso né imparare molto; piuttosto è un momento di confronto intenso per dare ai ragazzi la possibilità di mettere il piede su un palcoscenico, perché sappiamo bene che un conto è cantare in una stanza e un conto è cantare sul palcoscenico. Ti sottolineo “sappiamo” al plurale perché non mi posso prendere il merito di questo progetto che è nato dalla testa di Sergio (Sergio Vitale), mio marito, e dalla collaborazione con i ragazzi della Filarmonica di Benevento. La possibilità di cantare in palcoscenico fa tutta la differenza perché ti fa scattare qualche cosa dentro, è la prova del nove in cui ti rendi conto se quella è la vita che desideri per il tuo futuro. Ed è anche un modo per fare un esame per sé stessi.
Foto di copertina © Todd Rosenberg
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