IL VIAGGIO INTERIORE

di Anna Michela Borracci


Il corpo è un organismo vivo, con una sua intelligenza autonoma ma sensibile alla mente e all’emotivo. Di questo fatto ormai si parla, ma viene comunemente ignorato nell’ordinario della nostra quotidianità per pura negligenza, come se la vita che ci scorre dentro non ci riguardasse più e ci fosse sempre un domani per occuparsene. Allora la via maestra per accedere al mondo interno, e solo quando disturba, è solo dall’esterno.  Significativo il fatto che il sostantivo “cura”, ad esempio, abbia perso oggi tutte le sfumature del suo significato originario “soggettivo” e “preventivo” di “prendere a cuore, scaldare”, “mettersi in ascolto”, “conoscere”, per lasciare il posto a “insieme di terapie o di cure mediche”, così come il verbo di derivazione germanica “guarire” che anticamente voleva dire “proteggere” dal male attraverso il “guardare” e il “vedere”, illuminare con la luce della consapevolezza, oggi è limitato al significato di superamento di una malattia. Eppure, accedere al nostro mondo interiore, divenire consapevoli e coscienti – e le neuroscienze lo hanno abbondantemente dimostrato – è la miglior prevenzione e la migliore cura per ritornare a giocare un ruolo attivo nella nostra vita, e ci eviterebbe tante degenerazioni e malesseri, oltre a rappresentare, in caso di malattia conclamata, un moltiplicatore dell’efficacia stessa delle terapie. Tanto che, in alcune strutture sanitare, iniziano ad entrare ufficialmente pratiche di consapevolezza come lo yoga e la meditazione per stimolare il sistema immunitario e non solo. L’Hatha Yoga, che comprende Asana, Pranayama e Meditazione, è a tutti gli effetti un metodo di autoguarigione nel senso antico della parola, quindi di prevenzione oltre che di cura delle cause e dei loro sintomi. Il suo primissimo scopo è tornare a percepire e ad interagire con il mondo interno, fino alla più piccola cellula, attraverso la stimolazione e il risveglio dei ricettori nervosi, e la creazione di nuove connessioni, nuovi circuiti e funzioni e quindi nuove forme di pensiero e di vitalismo nel corpo. Ma come possiamo accedervi se non vogliamo guardare/guarire? La nostra mente ama vagare nei suoi paradisi, occorre riportarla a casa, nel corpo, piano piano con pazienza e umiltà. Per qualcuno sarà più facile partire dal controllo della respirazione, qualcuno potrà usare più la facoltà visiva, immaginare quindi e creare con la mente, altri potranno partire da una stimolazione più corporea o sensoriale. Ma a prescindere da quale sia il seme, tutti e tre gli elementi non possono che coesistere e devono essere integrati tra di loro. Man mano che si progredisce nella pratica si impara a distinguere tra corpo reale e fantasia del corpo. Succede a volte, ad esempio, che mentre si esegue una posizione si abbia l’impressione di poterla mantenere a lungo, mentre poi sciogliendola, o addirittura il giorno dopo, arriva il dolore e ci si rende conto che muscoli, giunture e legamenti erano in tensione, per non parlare di ciò che avviene a livello più profondo dove l’azione viene metabolizzata come una violenza che porta ad un atteggiamento difensivo e di chiusura o di alterazione del primo processo vitale rappresentato dal respiro.  Tutto ciò succede ogni volta che la mente oscura il corpo reale, non lo vede, andando ben oltre ciò che è veramente utile. Negli Asana ci confrontiamo con la questione della forma, ma dall’interno. Nell’assumere una posizione ci sono diversi aspetti da prendere in considerazione. Nella maggior parte dei casi si tende ad imitare un’immagine, realizzando una copia esteriore. Prima responsabilità dell’insegnante è far comprendere il cambiamento di prospettiva, da cui poi rovesciare gli schemi automatici fissati nella nostra mente. Altro aspetto è la consapevolezza sugli aspetti di tipo posturale da impostare ancor prima dell’Asana che risvegliano nel praticante potenziali fino ad allora ignoti, oltre a prevenire squilibri che ripetuti nel tempo possono divenire danni, anche molto gravi. Il messaggio difficile da far passare, è che non c’è niente da correggere, lo Yoga è uno strumento di conoscenza, integrazione e ampliamento della conoscenza di sé.  Ognuno di noi è un universo, non ci sono modelli esteriori, ma solo viaggi interiori.  Da questo punto di vista, ogni posizione e ogni sequenza non può che essere un originale, l’allievo dovrà imparare a essere creativo, sviluppare l’Asana da dentro, per iniziare ad intraprendere un camino di ascolto, conoscenza e progressivo cambiamento. Dal proprio centro, dal mondo interno, potrà poi iniziare ad osservare la relazione tra sé e lo spazio esterno. Potrà emergere quell’aspetto di interconnessione con il tutto che evidenzia la nostra vita come relazione, un agire insieme ma senza perdita di presenza, altrimenti si cade nella suggestione collettiva e nel rito. Allora l’allievo perde la sua attorialità e diviene seguace, in un progressivo processo di intorpidimento della propria autonomia di giudizio. L’Hatha Yoga si pratica per divenire liberi, per imparare a guarire da tutte le prigioni che ci siamo messi addosso. Solo così, la verità improvvisamente appare, come un lampo, e un pezzetto alla volta. Compito non facile in una società come la nostra che genera per sua natura bisogni e desideri fittizi e che sempre di più esclude l’intervento attivo dell’uomo nei processi produttivi e ora anche cognitivi. Mi viene in mente un bellissimo saggio di Italo Calvino del ’60 intitolato “Il mare dell’oggettività” in cui l’autore difendeva l’individualità e la coscienza dal dilagare dell’alienazione. “Nelle sabbie mobili dell’oggettività” scriveva, è possibile ancora intravedere il barlume di una coscienza che vuole emergere per riaffermare una vera libertà. Credo che sia stata proprio questa lettura, ancora ventenne, a radicare in me il seme dell’umanesimo e dello Hatha Yoga.


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