“QUEER”

di Alessandra Mattirolo
Aveva appena 17 anni Luca Guadagnino quando venne folgorato dalla lettura del romanzo “Queer” di William Borroughs. Allora forse non aveva ancora deciso quale sarebbe stato il suo destino ma da quando il cinema è entrato nella sua vita, quella era la storia che avrebbe da sempre voluto raccontare.
Siamo a città del Messico negli anni 50. Magnificamente ricostruita negli studi di Cinecittà. Strade polverose, interni délabré sotto un cielo di un blu quasi inquietante. Un americano, William Lee, alias Daniel Craig, in un abito di lino color crema, e un panama in testa, si trascina da un bar all’altro, parla poco beve moltissimo, e porta alla cintura una inutile pistola che mai avrebbe usato. Un uomo non più giovane ma già perso, che riprende vita quando incontra il giovane Eugene Allerton (Drew Starkey) un militare in congedo bello, efebico, elegante, forse gay, forse no.
Dopo una prima notte alcolica di grande passione, Eugene diventa sfuggente. Si dà e si nega in modo capriccioso scatenando in Lee un’ossessione e un desiderio mai davvero appagato.
Non è solo la bramosia sessuale a tormentare il protagonista. Quello che cerca è qualcosa di molto più profondo, esistenziale. Un bisogno che riesce a contenere solo perdendosi nell’eroina o in fiumi di Mescal. L’abito di lino sempre più stazzonato parla da solo di colui che lo indossa capace di sopravvivere solo passando da una dipendenza all’altra. Come in altri suoi film, “Chiamami col tuo nome” o “Bones and all”, Guadagnino scava nel profondo senza paura di disturbare lo spettatore.
Così si assiste, fino in fondo, al dolore di William Lee, alle sue crisi di astinenza alle sue disperazioni. Poi la svolta. Eugene accetta di accompagnare William nel cuore della giungla sudamericana alla ricerca di una pianta allucinogena chiamata yage, oggi più conosciuta come ayahuasca. Una pianta che secondo Lee, riuscirà finalmente a leggere con chiarezza chi è veramente Eugene e cosa c’è nei suoi pensieri. La yage avrebbe dunque una funzione telepatica capace di creare una sincera comunicazione senza dover usare le parole.
La sciamana che fa loro da guida li avverte: “la yage è uno specchio e non è detto che quello che andrai a vedere ti piacerà”.
A questo punto del film diventa inutile, se non impossibile, distinguere la realtà dal sogno. L’aspetto onirico prende il sopravvento. I due si fondono e si separano, danzano e lottano in un crescendo di intensità scandita dalle musiche pulsanti e meccaniche di Trent Reznor e Atticus Ross. Come nel libro di Borroughs, il film di Guadagnino diventa astratto irregolare, nell’umore e nel ritmo. Incredibile la trasformazione di Craig da super uomo nei vari 007 al disperato gay in cerca di amore e capace di sostenere con realismo anche le scene di sesso omosessuale. Una grandissima interpretazione. “Il sesso, sostiene Craig, in una intervista sul New Yorker, è più o meno uguale per tutti. Quello che mi ha affascinato del personaggio è la sua disperata volontà di connettersi con un altro essere umano cercando nella yage la telepatia”.
“Queer” è dunque un film concepito per essere pungente, triste, molto enigmatico. O si ama o si esce con quel senso di angoscia che si ha quando si cerca di afferrare qualcosa che non potrà mai essere nostro.

mail: alessandramattirolo@womenlife.it