QUANDO IL TEATRO È VITA “E” LA VITA È TEATRO. FERRUCCIO MAROTTI SI RACCONTA…
di Chiara Montenero
Come disse Eduardo in Uomo e Galantuomo, “io tengo na buatta”, che altro non è che la scatola della mia memoria. Fin da ragazzo rimasi affascinato dal mondo dell0 spettacolo. Frequentavo il quarto ginnasio a Trieste quando riaprirono il teatro che era stato degli americani (e che poi divenne il Teatro Stabile di Trieste) e chiamarono l’attore Memo Benassi, non solo per portare in scena Cechov, ma anche per creare una piccola scuola di recitazione a cui io mi iscrissi immediatamente. Grazie alla mia voce di petto e priva di inflessioni dialettali, divenni l’allievo prediletto di Benassi, personaggio affascinante e androgino – andava in tournée con la Duse e la citava continuamente dicendo: “su questa spalla ha pianto Eleonora Duse…” – che mi diede il ruolo del protagonista nella pièce di Pirandello “Sogno (ma forse no)”. Avevo solo quattordici anni.
Tre anni dopo mi trasferii con la mia famiglia a Roma dove riuscii ad entrare nella claque dei teatri romani e quindi a vedere gratuitamente tutti gli spettacoli in programma. Già avevo avuto modo a Trieste di apprezzare Titina De Filippo in Filumena Marturano in una rappresentazione meravigliosa quanto incredibile. Figuratevi che in platea c’erano gran parte delle prostitute di Trieste con grandi mazzi di fiori da lanciare a fine spettacolo alla protagonista che, in quel ruolo, le rappresentava e le riscattava. Il teatro quindi per me non era pura rappresentazione, ma qualcosa di più grande: era la vita. A Roma ebbi l’opportunità di veder recitare i più grandi; ricordo Gassman nel suo primo Amleto e nel Vieste di Seneca insieme ad uno strepitoso Annibale Ninchi. Da appassionato, cominciai a studiare il teatro e la sua storia. Lessi un libro meraviglioso dal titolo “On the Art of Theatre” di Gordon Craig che mi piacque moltissimo e mi conquistò con la sua “utopia di teatro” tanto da scrivergli una lettera chiedendogli di poterlo incontrare. Con mio immenso stupore, dopo tre mesi ricevetti una sua letterina in cui mi disse che se fossi stato abbastanza matto da andarlo a conoscere, mi avrebbe dedicato due ore del suo tempo, ma solo dopo le ore quattordici perché altrimenti non lo avrei trovato sveglio. Io, appassionato com’ero della sua idea di teatro, partii con la mia vecchia 600 alla volta di Vence in Costa Azzurra, dove lui risiedeva. Anziché due ore mi fermai due anni e scrissi un libro su di lui. Fu un tempo da fiaba. Conobbi Chagall, Picasso, Matisse, Stokowski e anche un anziano ufficiale britannico che viveva in una splendida torre, ascoltava musica classica tutto il giorno e ci raccontava storie incredibili della sua vita. Chiesi al mio ospite chi fosse e lui mi rispose che quell’uomo aveva inspirato Fleming per il personaggio di James Bond! Una sera arrivò da Craig una spider con Peter Brook e la sua splendida moglie Natasha. Trascorremmo una serata fantastica e Brook mi fece una rivelazione che mi ha accompagnato tutta la vita: scegliere di non fare scelte, non l’o, ma l’e. Non bello o brutto, buono o cattivo, bianco o nero, ma bello e brutto, buono e cattivo, bianco e nero.
Dopo questa fantastica esperienza da Gordon, vinsi una borsa di studio del British Council e trascorsi l’etate in Inghilterra, a Stratford-upon-Avon, dove ebbi modo di seguire Brook che stava mettendo in scena La Tempesta. Conobbi i grandi interpreti del teatro inglese e mi innamorai della meravigliosa Vanessa Redgrave. In quegli anni ho vissuto il teatro come una follia al di sopra della realtà, una follia che inglobava tutto.
Il mio libro su Craig fu pubblicato dalla casa editrice Cappelli e la collana del teatro all’epoca era diretta da Paolo Grassi il quale volle assolutamente conoscermi. Andai all’appuntamento all’hotel Nazionale di Roma e ricordo che lui mi disse: “Marotti, lei deve venire con noi, o con noi o contro di noi” e io che allora ero uno studente universitario, mi ritrovai alla direzione delle attività culturali del Piccolo di Milano con uno stipendio per me favoloso. Tornavo a Roma il lunedì (giorno di chiusura del teatro) per avere gli appunti delle lezioni dagli amici e per dare i miei esami.
Era l’anno in cui Giorgio Strelher stava preparando Vita di Galileo di Bertolt Brecht con protagonista Tino Buazzelli, spettacolo della durata di cinque ore che andò in scena per centoventi giorni al Parco di Milano. Strelher era solito dire che dopo questo lavoro si sarebbe ucciso perché aveva realizzato il sogno di una vita. Con questo spettacolo scoprii un nuovo mondo dove vigeva la recitazione dialettica, la recitazione etica.
Terminata questa magnifica esperienza come uno dei tre assistenti di Strehler, decisi di rientrare a Roma per continuare i miei studi, provocando grande disappunto in Paolo Grassi che mi considerava il suo pupillo. Mi laureai il 10 febbraio del 1963 e il 16 febbraio ricevetti una telefonata di Giovanni Macchia, allora titolare della cattedra di Storia del Teatro e dello Spettacolo che mi chiedeva di tenere io la sua lezione quel giorno perché lui si era ammalato. Ne seguì uno scandalo perché io, in quanto neolaureato, non avrei potuto sostituire un docente.
Furono anni straordinari e la mia è stata un’avventura bellissima in quanto, essendo l’università di Roma il luogo dove nacquero gli Universitai, i Guf, che facevano teatro, da lì erano passati Geraldo Palmieri, Anna Proclemer, Giulietta Masina, e tutti i miei miti. Io decisi quindi di impossessarmi del Teatro dell’Ateneo, che era stato chiuso perché ritenuto inagibile, e ne feci la mia aula.
Nel ’68 feci venire i Living Theatre che, con la loro presenza scenica, sconvolsero il mondo. Un teatro mai visto prima, con gli attori che scendevano tra il pubblico, ma che comunque conviveva con quello di Eduardo, di Shakespeare o di Pirandello.
Altro grande maestro dell’epoca era Luchino Visconti, il suo Cechov con Marcello Mastroianni fu strepitoso. Tutti gli attori di quel periodo, Paolo Stoppa, Rina Morelli, Rossella Falck, Romolo Valli facevano parte di un teatro rarefattamente umano. Intanto io, nel mio Teatro Ateneo (in cui ci pioveva dentro!) iniziai a fare le mie lezioni agli studenti, sempre più numerosi.
All’inizio degli anni ’70 invitai l’allievo prediletto di Brecht, Benno Besson, a fare un laboratorio di un mese sull’”Eccezione e la Regola”, con i ragazzi che si scambiavano le parti. Fu un’esperienza bellissima che poi presentammo al pubblico, ma il teatro divenne talmente affollato che fummo cacciati dalla polizia.
Nel mio laboratorio vennero a tenere seminari tutti i grandi nomi del teatro: da Vittorio Gassman a Carmelo Bene fino alla grande avventura con Eduardo che riuscii a coinvolgere grazie all’amicizia con sua moglie, la scrittrice Isabella Quarantotti. Era l’81 e lui venne a tenere una lezione-spettacolo raccontando la storia della sua vita. Iniziò dicendo: “Non sono un professore, io sono un figlio d’arte”. In quell’anno riuscii ad ottenere una cattedra di professore a contratto non solo per Eduardo De Filippo, ma anche per Jerzy Grotowski, grande regista polacco, la cui presenza in Polonia non era politicamente gradita. Avevo conosciuto Grotowski nel 1967 e avevo fatto pubblicare il suo libro “Per un teatro povero” da Bulzoni che, proprio grazie alle centocinquantamila copie vendute, iniziò la collana del teatro. L’anno accademico ’82-’83 fu davvero incredibile. Avevo Grotowsky al mattino e De Filippo il pomeriggio che per tre mesi fecero lezione ai miei studenti.
Da allora il teatro è molto cambiato, ma questa è proprio la sua forza. Il teatro è per pochi e non per le folle. Dove si cerca l’uomo si trova anche il teatro. Oggi siamo a corto di umanità, ormai tutto è in degrado, tutto va a numeri. I film realizzati in digitale mostrano soprattutto violenza senza alcun approfondimento umano. D’altronde Gian Battista Vico disse che la storia è fatta a onde, ci sono momenti di crescita e momenti di caduta. Sono estremamente felice di aver vissuto quegli anni di grande spessore artistico e culturale. Noi siamo vicini al fondo, ma speriamo di toccarlo per poi risorgere.
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