L’OPERA “INNOMINABILE” ALLA SCALA

di Pietro Pellegrino
Erano venti anni che mancava dal cartellone della Scala. Che l’esclusione fosse dovuta alla fama di opera che porta sfortuna dentro e fuori la finzione scenica (fama consolidata negli anni da una costellazione di coincidenze infauste, tanto da essere censurata come “innominabile”), è ipotesi malevola, felicemente smentita dall’esito della prima, andata in scena il 7 dicembre scorso.
Tutto, nella serata inaugurale e nelle repliche, è andato liscio, in scena e fuori scena, se si esclude l’anticipato forfait del tenore Kaufmann, motivato da ragioni familiari (?) e l’assenza del Presidente della Repubblica, ritualmente presente alla prima della stagione, stavolta dirottato da obblighi istituzionali (?)in terra di Francia alla riapertura di Notre-Dame risanata. Diciamo subito per chiarezza che l’opera che ha aperto la stagione della Scala è “La Forza del Destino”(ma eviteremo di nominarla) nella versione riveduta e corretta del 1869. A dicembre 1860 Il Teatro Imperiale di San Pietroburgo (ora teatro Mariinskij) aveva commissionato a Verdi un’opera drammatica su un soggetto a sua scelta, remunerandolo con ben 60.000 franchi oro, somma principesca per i tempi, con cui il maestro avrebbe largamente coperto le costose opere di miglioria progettate per la sua tenuta di Sant’Agata. Quanto al soggetto, scartato il” Ruy Blas” di Hugo per ragioni di opportunità politica, (il drammone francese conteneva sottintesi antimonarchici poco graditi anche a uno zar di tendenze liberali come Alessandro II), fu presto trovato in un dramma romantico a tinte forti: il “Don Alvaro o la fuerza del sino ” dello scrittore spagnolo Angel de Saavedra y Ramírez de Baquedano, che Verdi aveva già letto nel 1850 in traduzione italiana. Il fidato Francesco Maria Piave fu incaricato della stesura del libretto. A Andrea Maffei, traduttore italiano di Schiller, Verdi chiese di poter utilizzare per l’episodio dell’ accampamento militare a Velletri nel III atto una scena tratta del “Wallensteins Lager” ( il campo di Wallenstein). La prima rappresentazione, programmata al Mariinskij a dicembre 1861, fu però rinviata (ecco l’incipit della cattiva nomea dell’opera) per l’indisposizione del soprano, giudicata da Verdi insostituibile nel ruolo di Leonora. L’opera andò in scena a dicembre dell’anno successivo al teatro Mariinskij, con buon successo di pubblico, ma non senza alcune riserve della critica che si appuntavano sulla scarsa organicità della struttura musicale, tributaria per molti aspetti del grand – opéra francese (Meyerbeer). Nel 1863 fu rappresentata per la prima volta in Italia a Roma al teatro Apollo, dove ottenne un tiepido successo di pubblico che Verdi attribuì, almeno in parte, a una compagnia di canto non ben assortita. Fatto sta che volendo riallacciare i rapporti interrotti da alcun anni con la Scala, Verdi accettò, grazie anche alla mediazione di Tito Ricordi, la proposta della direzione del teatro di ripresentare l’opera a Milano in un nuovo allestimento. E mise mano alla revisione dello spartito, consapevole della necessità di intervenire anche sul testo del libretto. Troppi morti sul palcoscenico, si era lamentato Verdi; e soprattutto il finale non lo convinceva, con Don Alvaro che sigillava la cupa sequenza degli ammazzamenti precipitandosi dall’alto di una rupe e maledicendo la razza umana. Si trattava di rendere l’opera anche nell’intreccio più “salonfähig”, cioè “più presentabile” e adatta ai gusti del pubblico. Le centrate innovazioni, in sinergia con il nuovo librettista Ghislanzoni (che sostituì Piave, colpito – fu puro caso? – da un ictus e perciò inabile al ruolo), calibrarono meglio struttura e partitura dell’opera rispetto alla versione del 1862. Il preludio prende ora un respiro autenticamente sinfonico, articolandosi in una struttura robusta ed estesa in cui sono depositate e genialmente chiaroscurate le cifre ritmiche e melodiche che tornano nell’ opera a caratterizzare le dramatis personae; nel terzo atto viene introdotto un brillante rondò affidato alla zingara Petrosilla e soprattutto riscritto il finale che lascia ora in vita don Alvaro al quale il Padre guardiano addita manzonianamente la possibilità della rassegnazione e del conforto religioso, (“non imprecare, umiliati”). In questo revirement verso una prospettiva fideistica e allusivamente teleologica qualche critico ha letto l’influsso decisivo dell’incontro avvenuto nel 1868 fra Verdi e il gran lumbard, Manzoni.
Il plot, debitore, ma con provvidenziali varianti e potature, al dramma spagnolo non è del tutto lineare, si apre in numerosi quadri laterali che sembrano agire come forza centrifuga rispetto al filone drammatico principale, dilatando vistosamente le coordinate spazio-temporali dell’azione (tra il secondo e il terzo passano alcuni anni; tra il terzo e il quarto più di cinque). Il punto va qui chiarito perché ci dà la chiave di comprensione dell’intera struttura drammaturgica; l’opera segna nell’itinerario verdiano il punto di transizione dalle monadi perfette del trittico (Rigoletto, Traviata, Trovatore) a un nuovo modello drammaturgico che si apre a una umanità più varia, frastagliata di mendicanti, popolo minuto, vivandieri, frati paciosi con attitudini laiche, zingarelle maliziose e sullo sfondo la guerra e la fame. In questa realtà gremita di esistenze apparentemente insignificanti Verdi disegna la silhouette comica e sorniona di Fra’ Melitone e di mastro Trabuco, la figurina ammiccante di Preziosilla (che richiama il paggio Oscar del Ballo in Maschera) e i testimoni della fede incarnata, il Padre Guardiano con la sua religiosità austera e dolente ma ferma. Questa nuova poetica drammaturgica viene calata in una forma teatrale e musicale aperta, che da un lato supera il collaudato schema compositivo di recitativo, aria e cabaletta, dall’altro si articola in quadri scenici cui corrispondono tranches temporali distanti fra loro. Il collante che li unisce, evitando frammentarietà e dispersione, sta proprio nella originale intenzione verdiana di offrire uno spaccato stratificato del mondo reale sottraendolo alla dimensione esclusiva del dramma individuale. Da qui la struttura policentrica dell’opera ricca non a caso di cellule tematiche e musicali che saranno portate a maturazione in opere successive. Una per tutte: il registro comico di Fra’ Melitone, innalzato nell’ultima opera di Verdi, il Falstaff, allo stato dell’arte. Ora qualche stenografica indicazione dei soli punti nodali della trama. Leonora di Vargas ama riamata Don Alvaro, indio di nobile famiglia, contro il volere del padre, marchese di Calatrava. Durante un tentativo di fuga dei due innamorati parte un accidentale colpo di pistola che ferisce a morte il padre di Leonora ; i due fuggono seguendo strade diverse. Mentre Leonora si ritira come penitente in un eremo presso il monastero retto dal Padre Guardiano, Alvaro si arruola nell’esercito spagnolo partecipando alla guerra di successione austriaca in Italia; in una scaramuccia presso Velletri salva , senza saperlo, la vita a don Carlo fratello di Leonora, il quale scopre per caso (ancora il destino cinico e baro!) la vera identità di don Alvaro; ne segue un duello interrotto dall’arrivo della ronda. Alvaro decide allora di ritirarsi in un chiostro, dove è raggiunto da Don Carlo, per il quale la vendetta è non solo un punto d’onore ma una ragione di vita; i due si sfidano a duello stavolta fatale. Carlo cade trafitto da don Alvaro e morente invoca la confessione. Dall’ eremo vicino appare Leonora, che abbraccia il fratello. Carlo prima di morire la pugnala. Il cerchio si chiude. Don Alvaro, unico superstite, maledice disperato il destino, mentre il Padre Guardiamo lo esorta alla rassegnazione e alla fiducia in Dio. Il direttore Chailly ha dato dello spartito verdiano una lettura filologicamente attenta, sulla linea del Boris Godunov diretto nel 2023, ma non asettica né scolastica. Ha saputo restituire con proprietà stilistica la innovativa Stilmischung, la varietà quasi spiazzante dei registri verdiani ( comico, tragico, lirico, mistico con echi manzoniani nel finale) grazie a una orchestrazione duttile e raffinata, alternando i volumi corposi, gli scatti e stacchi, il “fuoco” della partitura a suoni morbidi, rarefatti in uno sfumato “leonardesco” come nelle grandi arie di Leonora, assecondato dalla intelligenza (anche scenica e attoriale) e dalla vocalità degli interpreti. Il tenore americano Brian Jagde (Don Alvaro) ha una voce robusta ben timbrata e squillante, canta con un legato omogeneo che rende fluidi i passaggi di registro (dal grave al medio all’acuto), segno di una adeguata tecnica di respirazione Nella grande aria ” La vita è inferno all’infelice” affiora tuttavia qualche durezza di suono e approssimazione stilistica dovute più che a difficoltà tecniche a una esplorazione ancora sommaria della psicologia del personaggio. E se l’accento suona virilmente verdiano cioè nobile e fiero, è ancora approssimativo il gioco dei chiaroscuri che valorizzi l’intera dinamica sentimentale di Don Alvaro. Per cui il canto tendenzialmente portato al forte e mezzo forte e il fraseggio si appiattiscono un poco e perdono in varietà di colori, specie nelle pause meditative, nei ripiegamenti malinconici. Voce di qualità quella del tenore americano ma ancora work in progress. Più omogeneo e solido il don Carlo di Ludovic Tézier(baritono), che esibisce una voce pastosa, di bel timbro chiaro e nobile , autenticamente verdiana, con un legato eccellente e passaggi di registro impeccabili. Inoltre l’emissione è sempre morbida, senza forzature , si estende nell’ottava inferiore e superiore con naturalezza, salendo senza scomporsi al registro acuto. Quanto alla Netrebko (Leonora), destinataria di qualche sibilo di disapprovazione dal loggione, più umorale che tecnicamente motivato, va detto che è un must-have delle prime scaligere, avendo già inaugurato le stagioni 2017 con Andrea Chénier, 2019 con Tosca, 2021 con Macbeth,2023 con Don Carlo. La voce rispetto agli esordi da soprano lirico si è ora irrobustita nei centri senza tuttavia perdere in estensione, lucentezza e squillo. La maggiore, fisiologica corposità del registro centrale può provocare una lieve enfasi declamatoria di inflessione verista non coerente talvolta con la linea di canto verdiano, almeno in quest’opera. Ma nella grande aria “La Vergine degli Angeli” la Netrebko ci da’ un esempio da manuale di cosa significa cantare sul fiato con ispirata raccolta dolcezza di timbro. Il Padre Guardiano (Alexander Vinogradov) ha, secondo la tradizione dei bassi di scuola russa, una voce morbida malinconicamente screziata, è ieratico e solenne come richiede la parte, ma, a voler fare le pulci, manca delle note da “pedale” che appartengono al basso profondo, per citare nomi esemplari: Ghiaurov, Giulio Neri, Rossi Lemeni, Siepi. Ma quella è un’altra storia… Filippo Romano disegna un fra’ Melitone, come si dice, a tutto tondo, con vocalità e disinvoltura attoriale da baritono “buffo” senza però mai scadere nel macchiettistico o caricaturale. Vasilisa Berzhanskaya(mezzosoprano) è una Preziosilla di grande verve scenica, voce agile e svettante, esegue bene senza enfasi bandistica il famoso “Rataplan”. Il marchese di Calatrava è Franco Beggi, (pasta vocale da basso leggero) corretto e appropriato alle esigenze del ruolo. Su regia e scenografia il discorso da fare è più complesso. I salti di tempo e spazio (altro che le tre unità aristoteliche!) su cui è costruita l’opera impongono una messinscena in continuo divenire che dall’accampamento militare presso Velletri trapassa alle trincee della prima guerra mondiale, di qui a un imprecisato campo profughi attuale e infine alle rocciose solitudini (con annesso eremo) dell’ultimo atto. Una grande piattaforma girevole (simbolo della ruota del destino) piazzata al centro del palcoscenico assicura veloci cambi di scena senza interferire con la narrazione musicale.L’attualizzazione della scenografia con tanto di trincee, mitragliatrici, elmetti, bombe a mano e fanti in grigioverde è il tributo minimo dovuto al mainstream decontestualizzante e può essere accettata senza scandalo anche dai tradizionalisti più severi. Su questa linea la regia di Muscato si accorda, senza previcare, con l’intenzione verdiana di allargare il dramma del destino individuale a uno sfondo umano più vario e sfaccettato in figure minori, segnate dal male della guerra e della fame. Applausi per tutti, cantanti, coro, direttore e regista, spontanei e prolungati con qualche sparso e politicamente sospetto dissenso per la russa Netrebko.
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