IL TEATRO FA DOMANDE, MA NON DA RISPOSTE

di Pino Ammendola


Se è vero che il teatro rappresenta l’elogio del dubbio e che ogni spettacolo dovrebbe generare un tarlo che si insinui nella coscienza dello spettatore per scardinarne le certezze, “A torto o a ragione”, tratto dal testo di Ronald Harwood “Taking sides” per la sapiente regia di Giovanni Anfuso, è davvero una pièce iconica!                              L’eterna lotta tra il bene e il male, che sempre si adombra nel confronto tra vincitori e vinti qui ha per campo di battaglia una storia assolutamente vera, a cui una regia molto attenta alla credibilità dà la forza del documento, un documento secretato che finalmente ci viene rivelato nei dettagli. Assistiamo a una sorta di interrogatorio-processo contro Wilhelm Furtwangler, il celebre direttore d’orchestra divenuto una sorta di monumento della cultura tedesca del novecento, che non si schierò mai apertamente contro il regime nazista e al termine della guerra, venne indagato perché sospettato di essere a favore di Hitler. Ad accusare il grande artista è un giovane ufficiale americano dai modi spicci. Viene dalla ‘pancia’ dell’America, col mito degli yankee portatori di libertà, stile settimo cavalleggeri, gli ‘artisti’ in generale lo insospettiscono, non ama la musica classica, anzi è quanto ci sia di più lontano da lui, nella vita fa l’assicuratore e bada al sodo non certo alle canzonette! A dare corpo, anima e soprattutto ‘sangue’ a questo personaggio (che potrebbe essere uscito dalla penna di Arthur Miller) un Simone Toni in stato di grazia, che riesce abilmente a rendere simpatico quello che sulla carta è l’antagonista, l’inquisitore disposto a tutto pur di vedere punito quello che pensa, in cuor suo, essere un filonazista. E ci riesce perfettamente, restituendo alla figura del giovane ufficiale un’assoluta volontà di ricerca del bene, per quanto costretta in una visione manichea da pieno new deal. Ma tutte le sue certezze vacillano quando, nella storia e in scena, appare (e credetemi il termine è assolutamente appropriato) Stefano Santospago nei panni di Furtwangler. Certo la regia ne prepara abilmente l’ingresso, quasi evocandolo nel racconto di quelli che lo precedono e creando un’attesa nello spettatore, ma quando finalmente Santospago-Furtwangler entra, con passo lento e misurato, portandosi sulle spalle con assoluta naturalezza la monumentalità del personaggio, il pubblico ha un brivido e forse sente la tromba del settimo che finalmente viene a ‘scagionare’ l’arte così denigrata fino a ora dal vincitore americano. Bellissima, straordinaria, l’interpretazione di Santospago, forse nel personaggio che più gli è congeniale nella sua pur variegata carriera. Ci fa esaltare quando rintuzza le accuse con acuti silenzi e microscopiche variazioni del volto e ci rigetta nel dubbio più atroce quando in finale smaschera tutta la debolezza del personaggio, regalandoci forse anche la sua propria debolezza di artista di fronte a un problema così complesso come la libertà dell’arte. Gli altri ruoli non sono certo di contorno, tutti estremamente curati sono magistralmente orchestrati per produrre una sinfonia polifonica: Giampiero Cicciò riesce a far ‘suonare’ sinistramente la vigliaccheria di un vinto disposto a tutto per sopravvivere, Liliana Randi batte con forza il tamburo di un dolore che ha perso ogni ritegno, che non intenerisce l’accusatore, ma che fa vibrare il cuore degli spettatori, Luigi Nicotra l’attendente americano e Roberta Catanese la giovanissima segretaria tedesca sono forse le ingenue voci del bene che dai lati opposti della barricata si domandano se sia giusto attaccare così ferocemente un’artista che ha prodotto tanta bellezza, instillando un altro dubbio nello spettatore, ma regalandogli la certezza di trovarsi di fronte a due attori giovani quanto talentuosi.

Intrigante la scena di Andrea Taddei, una sorta di ufficio deposito, che ha due piani di percezione: iperrealistica nel proscenio, acquista poi in profondità un aspetto misterioso, evocativo a tratti al limite del surreale. 

“L’arte conta più della politica” dice Furtwangler nello spettacolo, ma in realtà grida che forse l’arte conta più della vita stessa! Tutto questo dunque metterebbe l’arista fuori dal giudizio, se non sulla sua stessa opera? E quale è il confine tra le azioni dell’uomo e quelle dell’artista? E quali sono i limiti morali valicabili in difesa dell’arte? Tutte domande a cui intelligentemente lo spettacolo non dà risposte. La regia di Giovanni Anfuso a torto o ragione (mi si perdoni il calembour) non prende posizione, perché la verità, soprattutto a teatro, non esiste e se c’è è pirandellianamente relativa. Alla fine l’unica certezza che rimane agli spettatori è quella di aver assistito a un grande spettacolo!

“A torto o a ragione”

Di Ronald Harwood

Regia Giovanni Anfuso

Prodotto dal Teatro Stabile di Catania /

Teatro Nazionale e Teatro Vittorio Emanuele di Messina

Fondazione Teatro Roma

In tournee in Italia.


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