IL CORAGGIO DI DIRE “BASTA”: LA VIOLENZA CONTRO LE DONNE

di Elisabetta Collalti


“Ogni atto di violenza fondata sul genere che abbia come risultato, o che possa probabilmente avere come risultato, un danno o una sofferenza fisica, sessuale o psicologica per le donne, incluse le minacce di tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, che avvenga nella vita pubblica o privata”. Così recita l’Articolo 1 della Dichiarazione sull’Eliminazione della Violenza contro le Donne, emanata nel 1993.

Una donna su tre. Questa la stima delle donne vittime di violenza a livello globale secondo la World Health Organization (WHO). Si tratta di un dato devastante, soprattutto se si pensa che la forma di violenza più comune sia quella domestica. In casa, focolare della famiglia, luogo sicuro che dovrebbe emanare profumo di amore, di serenità, di vita, si respira invece terrore e pericolo.

È scioccante pensare che ogni giorno, in ogni parte del mondo, più donne, madri, mogli, fidanzate, figlie, sorelle, amiche, subiscono una qualche forma di violenza. Dall’insulto verbale o le minacce ai pugni e ai maltrattamenti, dallo stalking allo stupro, dalla violenza psicologica alla più grave violazione dei diritti umani: rubare, spezzare, togliere la vita. Nel caso di una donna, femminicidio.

Potremmo chiederci quali siano i motivi per cui un uomo arriva a essere violento. Sicuramente vi sono svariati fattori che, a seconda dei casi specifici, possono entrare in gioco.

La cultura, basti pensare alla concezione storica di inferiorità della donna rispetto all’uomo o alla donna percepita come di proprietà di quest’ultimo, la biologia, l’ambiente, le relazioni familiari e interpersonali, crescere in contesti violenti, assistere a violenze o subirle in prima persona, abuso di alcol e altre sostanze, mancanza di empatia e disturbi della personalità, quali il narcisismo definito maligno (Kernberg, 1984) e caratterizzato da comportamento antisociale con sadismo e/o aggressività in cui l’altro, manipolato e soggiogato, diviene un semplice strumento per alimentare il senso grandioso di sé, sono elementi che possono concorrere alla generazione di una violenza a cui ormai, purtroppo, la nostra società è “abituata”.

Nell’epoca in cui viviamo, dove tutto è istantaneo, compresa l’informazione, siamo continuamente bombardati da notizie simili. Sui giornali, in televisione, sui social. Il fenomeno è persistente, dilagante e non accenna a fermarsi.

Eppure, non è semplice misurarne gli effetti in maniera esatta. Proprio perché spesso avviene tra le mura domestiche e in ambito familiare (nella maggior parte dei casi da parte di partner o ex), molte violenze non vengono denunciate: per vergogna, paura, convinzione di poter gestire la situazione e pensare di risolverla oppure continuare a dare quell’ultima possibilità che è poi sempre la penultima, non sapere come e a chi chiedere aiuto, sentirsi ingabbiati in un meccanismo dagli ingranaggi ormai fermi. Pensare che sia amore. Sentirsi soli e temere il giudizio.

Sopravvivere senza vivere.

Vorrei spostare quindi l’attenzione su quelle storie dal lieto fine, che riescono a tenere accesa quella fiamma di speranza. Quelle storie che urlano un messaggio ben preciso: tornare a vivere è possibile. Si può respirare di nuovo.

È fondamentale trovare la forza di chiedere aiuto e lasciarsi aiutare. Comprendere che non è amore. Non giustificare il primo schiaffo.

Denunciare è un atto di coraggio. Salvare queste donne, un atto dovuto. Educare i propri figli al rispetto e all’idea che la donna NON è di proprietà dell’uomo e del suo ego, è imprescindibile.

1522, NUMERO ANTI VIOLENZA E STALKING, attivo 24 ore su 24. Nessuna è sola.


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