GLI EUNUCHI IN UN HAREM
di Pino Ammendola
Vi domanderete perché in questo piccolo spazio che rubo sulla nostra-vostra rivista, a penne ben più dotte della mia, faccia sempre e solo critiche positive. Innanzitutto non sono un critico teatrale e non perché tema di cadere nella definizione di Brendan Behan “I critici sono come gli eunuchi di un harem: sanno come si fa… però non sono capaci di farlo”, all’alba dei miei sessanta anni di carriera credo infatti di essere diventato ‘abbastanza’ capace di farlo, ma proprio perché, facendolo il teatro, so bene quanto sia più facile trovare i difetti di uno spettacolo che non realizzarlo. Perdonate la tautologia, ma credo che una critica che critichi (nella comune eccezione negativa) sia davvero troppo facile e di certo non aiuta un settore in difficoltà!!! Uno spettacolo teatrale è sempre frutto di una serie di piccoli compromessi, ma soprattutto di una grande, enorme fatica, senza contare il dispendio di energie per portare il pubblico in sala. Mi piace quindi suggerire ai lettori solo le cose che mi hanno emozionato e a differenza del critico denigratore, che non si assume la responsabilità della sua stroncatura, in quanto frutto di un ragionamento che risponde a parametri logici o presunti tali, io ci metto, come suol dirsi, la faccia, proponendo pièce che mi sarebbe piaciuto interpretare in prima persona! Che suscitino in me una sana invidia emulativa. A questo punto mi direte… e come mai questa volta non ci suggerisci nulla? No, non ho smesso di frequentare le sale e tutte le sere, a meno che non sia io stesso in scena o ci sia qualcosa di diretto da me, sono in giro ad applaudire i colleghi, ma aimè ho potuto esercitare poco la nobile ginnastica di plaudire e per questo lascio protette dal silenzio le fatiche, purtroppo infruttuose (almeno ai miei occhi), dei pur volenterosi attori visti in questi ultimi tempi.
Il teatro è sempre il tentativo di dimostrare una bugia e tutto questo avviene con la assoluta complicità del pubblico: lo spettatore si siede in sala… si spengono le luci e all’apertura del sipario è disposto tranquillamente a credere che quello che vede sia un salotto borghese o un giardino di ciliegi e che quelle ‘mura’ fatte di cantinelle e compensato dipinto, lo separino da lussuose stanze adornate di stucchi dorati o misere alcove abitate da donne febbricitanti. Ci crede obbligatoriamente… è la convenzione alla base del tacito patto fatto con il Teatro in primis e poi con il regista, lo scenografo e gli attori. Ma quando questi ultimi entrano in scena, quello che dicono e quello che fanno, deve essere assolutamente vero, perfettamente credibile! Solo così non si rompe quel patto, solo così non si viene meno a quell’accordo tra pubblico e commedianti! Beh devo confessarvi che ultimamente questo patto vacilla, e non perché, come una volta, gli interpreti parlino con voce roboante e artefatta, magari è esattamente il contrario, si spazia da un borbottare sommesso, amplificato dai (perdonate!) inaccettabili microfoni, a un gridio sconnesso a metà tra comizio e spot pubblicitario, ma perché la verità, la verità di quello che si dice è totalmente assente! Non so se sia stata la televisione a condizionare la nostra percezione di vero e falso, ma sicuramente sta tentando di abituarci ad accettare dei dialoghi non solo sciatti e sgrammaticati, ma assolutamente non credibili!Quando era ancora un giovane attore recitavo “l’Adulatore” di Goldoni allo Stabile di Bolzano, il mio maestro Achille Millo, attore di straordinaria modernità, ne era il protagonista e io interpretavo il suo servo. Il mio padrone mi ordinava di avvelenare il potente governatore così da prenderne il posto. Cosicché portavo in scena un caffè avvelenato e lo servivo al malcapitato con una faccia un po’ diabolica e con il compiacimento di sapere che ero il motore dell’azione scenica. Il mio maestro mi domandò perché facessi quella faccia così particolare mentre servivo quel caffè è io, molto ingenuamente, gli risposi: perché è avvelenato! Mi fece notare che se nella vita avessi dovuto servire un caffè avvelenato lo avrei fatto senza nessuna espressione, poggiandolo davanti alla vittima in maniera apparentemente distratta e certamente senza guardarla… né tantomeno ammiccando al pubblico che sapeva bene che il caffè era stato avvelenato. In quell’occasione capì molte cose e proprio come a Vasilij Vasil’ič, il vecchio attore del “Canto del cigno” di Čechov, mi si aprirono gli ‘occhi’ e compresi che solo la verità, per quanto iscritta in una bugia condivisa, poteva vincere, fare breccia nel cuore degli spettatori e forse in quella occasione cominciai ad ‘imparare’ questo difficile e straordinario mestiere. Non a caso gli artisti di quel tempo, ci redarguivano rammentandoci che: “…la vita è breve e l’arte è lunga…” perché ci vogliono anni a spogliarsi delle maschere che indossiamo nella vita e ci vogliono anni per poter dare al personaggio che interpretiamo la nuda maschera del nostro volto. Viva il teatro… quello vero dove tutto è finto ma niente è falso!
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