DEREK WALCOTT

di Andrea Simi
11 aprile 2020
Derek Walcott, scomparso nel 2017, vincitore del premio Nobel nel 1992, è stato l’Omero dei Caraibi.
In un suo verso ha proclamato con orgoglio: “Ho cantato la nostra vasta nazione, il mar dei Caraibi”. Una nazione frammentata fisicamente – fatta com’è di isole, grandi e piccole – e frammentaria quanto a lingua e cultura, con aree di influenza spagnola, inglese, francese e olandese.
Walcott è nativo di Santa Lucia, nelle piccole Antille, che dalla prima colonizzazione ha conservato la toponomastica, tradizioni e una lingua popolare creola derivata dal francese. Ma ha scritto le sue opere maggiori in inglese (Il paese oggi è indipendente, dopo una lunga colonizzazione britannica, ed è tuttora membro del Commonwealth).
“Omeros” è un vasto poema che riecheggia entrambi i testi fondativi della civiltà occidentale: dall’Iliade trae lo spunto (cioè la lotta fra Achille, un pescatore, ed Ettore, che ha lasciato il mare per fare il tassista, per l’amore di Elena, una bella cameriera); dall’Odissea l’ambiente, il vasto Oceano, e il racconto delle prove che il navigare comporta. Il poema, significativamente, si conclude con questo verso: “Quando lasciò la spiaggia il mare era ancora il mare”
Sullo sfondo l’isola di oggi, chiassosa, contaminata e corrotta dal turismo e dal consumismo, dove si muove una folla di personaggi, a volte ripresi da quelli di Omero. “Omeros”, ha sviluppo e solennità prossimi a quelli dell’Iliade e dell’Odissea; il tono è epico, ma anche elegiaco: consta di quasi ottomila versi, suddivisi in sette libri in terzine, a riprendere il modello dantesco. I versi, però, sono lunghi come gli esametri della tradizione classica, e come questi caratterizzati da cesure intorno alla metà di ogni rigo.
Qui ne viene proposto uno dei passi più marcatamente odissiaci; il ritorno a casa dell’equipaggio, stremato dopo un lungo peregrinare. La traduzione è tratta dall’edizione Adelphi del 2003, a cura di Andrea Molesini
Libro quinto, capitolo XL
I
……..
Sul ponte strinato Odisseo ascolta la musica dei colli
attraverso i fori dell’albero di maestra.
La vela aderisce come una farfalla allo snodo
Di un ramo di Ulivo. Una sposa al braccio del padre
teme per il futuro. Sulla sua ombra stanca
la prua vira piano, incerta sulla rotta. E lui si toglie la pelle
squamata dal sole facendone mappe di pergamena
grigia che arrotola distratto tra l’indice e il pollice. Fermi
come statue i marinai osservano quel finto distacco e il loro cuore
tra le costole, batte sordo come nelle galee il tamburo degli schiavi
II
Curvi sui remi, sorridono: “questa è la nostra Calipso,
Capitano, che ci tratta come porci, tu non rivedrai la costa.
Che questo sole ti bruci fino a farti negro e ti spacchi le labbra,
che ti tolga la voglia di dare ordini, in culo te e la tua guerra”
Il piccone fermo, in ozio. Nessun remo alza un dito.
Vesciche fioriscono sulle mani. L’attonita trireme vira
dalla parte sbagliata, come il cantante dalla vista rannuvolata
che pizzica le corde del mare, torna indietro verso il sogno
di Elena, indietro verso l’isola dove la loro schiena curva
si rizzò e rovistarono tra i mucchi di letame di Circe,
quando il suo lungo braccio versò il vino che incanta
ed essi si riebbero tra fresche lenzuola. – Capitano, ragazzo? Chiedi
pietà, che il vento giri, perché qualche volta il tuo cuore
è duro come l’albero di maestra, sogni Itaca, ti rivolgi
ai tuoi dei. Che possano essere distanti dal tuo vagare
come i nostri dei in Africa. Passiamo
da un’isola all’altra. E ancora non siamo a casa”
Il nostromo alza il piccone, e il metro
Dei lunghi remi lentamente si adeguò al ritmo, mentre
La prua s’indirizzava. Vide un palazzo di pietra calcarea
Sul piccolo porto, vide una rondine di mare sfiorare
L’acqua arpeggiata dal sole, e sentì la formica di una brezza
attraversargli la fronte, e ora i colpi di remo del bruco
alzavano la crisalide, aperta nel ventaglio delle vele
spiegate mentre la scia era recisa dalla prora.
Il rapido piccone batteva come il cuore di Odisseo
e se avete visto una farfalla governare la propria ombra
in una calda cala a mezzogiorno o una canoa carica
fare rotta verso i corni di un’isola, allora saprete
perché la bocca di un porto si apre con gioia, perché la ciurma
di negri, gli schiavi e il capitano, alla fine dell’impresa
gridavano in coro mentre sentivano i solchi dell’onda
alzarsi e ricadere coi loro cuori, perché i rematori chiudevano
gli occhi pregando di essere diretti a casa. Sapevano
che le cangianti correnti dei Caraibi da Andros a Castries
potevano trascinarli fina a Margarita o a Curaçao,
che più ci si avvicinava a casa, più crescevano le paure
che nessuna casa ci sarebbe venuta incontro sulla nostra costa,
e i pescatori temono tutto questo proprio come Ulisse
finchè non vedono l’occhio solitario del faro lampeggiare.
Poi il battere del cuore si armonizza a quello dei remi
e le mani piagate piangono per le palme o per gli ulivi.

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