UNGARETTI E SABA
di Andrea Simi
Può essere interessante accostare due poeti artisticamente molto diversi fra loro, che hanno in comune solo l’aver attraversato i tumultuosi anni della prima metà del “secolo breve” e di aver partecipato da soldati al primo conflitto mondiale. Ma Ungaretti era al fronte e Saba nelle retrovie: in conformità – verrebbe da pensare – al carattere irruento del primo e alla vita “pensosa e schiva” (come egli stesso la definisce) del secondo.
Ungaretti, figlio di toscani, è nato e cresciuto ad Alessandria d’Egitto, come Kavafis, che ha conosciuto e con il quale ha parlato di letteratura nei suoi anni giovanili; poi ha soggiornato a lungo a Parigi, prima di essere chiamato alle armi.
“I Fiumi” è del 1916. Il poeta si bagna nell’Isonzo e in questo momento di purificazione e di pace, rivive le sue origini e il suo percorso personale fino alla presente, fragile, precaria condizione di soldato, quella condizione che più tardi, nel 1918, riassumerà in soli quattro versi, nove parole in tutto: “Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie”..
Solo tre anni prima della tempesta della guerra, Saba aveva sciolto il suo canto gentile e commosso alla “scontrosa grazia” della amata Trieste, la città “che in ogni parte è viva” dove era nato e aveva vissuto gli anni formativi dell’adolescenza; la città che sapeva lenire il disagio psichico sempre latente in lui.
La poesia fa parte della seconda raccolta poetica di Saba pubblicata nel 1912, “Con i miei occhi”, il cui titolo venne però significativamente modificato, l’anno successivo, in “Trieste e una donna”
I fiumi
Mi tengo a quest’albero mutilato
Abbandonato in questa dolina
Che ha il languore
Di un circo
Prima o dopo lo spettacolo
E guardo
Il passaggio quieto
Delle nuvole sulla luna
Stamani mi sono disteso
In un’urna d’acqua
E come una reliquia
Ho riposato
L’Isonzo scorrendo
Mi levigava
Come un suo sasso
Ho tirato su
Le mie quattro ossa
E me ne sono andato
Come un acrobata
Sull’acqua
Mi sono accoccolato
Vicino ai miei panni
Sudici di guerra
E come un beduino
Mi sono chinato a ricevere
Il sole
Questo è l’Isonzo
E qui meglio
Mi sono riconosciuto
Una docile fibra
Dell’universo
Il mio supplizio
É quando
Non mi credo
In armonia
Ma quelle occulte
Mani
Che m’intridono
Mi regalano
La rara
Felicità
Ho ripassato
Le epoche
Della mia vita
Questi sono
I miei fiumi
Questo è il Serchio
Al quale hanno attinto
Duemil’anni forse
Di gente mia campagnola
E mio padre e mia madre.
Questo è il Nilo
Che mi ha visto
Nascere e crescere
E ardere d’inconsapevolezza
Nelle distese pianure
Questa è la Senna
E in quel suo torbido
Mi sono rimescolato
E mi sono conosciuto
Questi sono i miei fiumi
Contati nell’Isonzo
Questa è la mia nostalgia
Che in ognuno
Mi traspare
Ora ch’è notte
Che la mia vita mi pare
Una corolla
Di tenebre
Trieste
Ho attraversato tutta la città.
Poi ho salita un’erta,
popolosa in principio, in là deserta,
chiusa da un muricciolo:
un cantuccio in cui solo
siedo; e mi pare che dove esso termina
termini la città.
Trieste ha una scontrosa
grazia. Se piace,
è come un ragazzaccio aspro e vorace,
con gli occhi azzurri e mani troppo grandi
per regalare un fiore;
come un amore
con gelosia.
Da quest’erta ogni chiesa, ogni sua via
scopro, se mena all’ingombrata spiaggia,
o alla collina cui, sulla sassosa
cima, una casa, l’ultima, s’aggrappa.
Intorno
circola ad ogni cosa
un’aria strana, un’aria tormentosa,
l’aria natia.
La mia città che in ogni parte è viva,
ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita
pensosa e schiva.
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