REFERENDUM

di Alessandro Servoli
Una parola che da alcuni anni torna spesso di moda, una istituzione che i Padri Costituenti hanno inserito nella nostra Costituzione come ulteriore chiave democratica per permettere al popolo sovrano di cancellare o confermare una o più leggi dello Stato e, come tali, promulgate dal Parlamento, avendo raggiunto la maggioranza più uno degli aventi diritto al voto.
Nella legge è evidente ed inequivocabile la riconferma che la democrazia si esercita nel Parlamento e che tale istituzione non ammettendo formule propositive, può diventare, come ultima istanza, la forma abrogativa di una legge che la maggioranza degli aventi diritto al voto può cancellare.
Ho voluto, quasi esagerando, fare questa prefazione come risposta personale al turbine mediatico dei lunghi giorni che hanno preceduto il voto e quelli, altrettanto grevi, per non considerarli ridicoli, che lo stanno seguendo.
Arrivo, ora, brevemente ad analizzare, secondo il mio metro di giudizio che ovviamente rispecchia il mio pensiero politico, alcuni dei quesiti referendari e alcune proposte di modifica alla legge per frenare l’abuso che se ne fa di essa; sarò aperto ad eventuali critiche del lettore.
La prima fra tutte è la proposta politica di portare ad un milione le firme da raccogliere, firme qualificate e rappresentative di tutto il territorio nazionale, la seconda che la Corte costituzionale esprima la legittimità prima della raccolta e non dopo come oggi avviene.
Quesiti sul lavoro, insieme a quello sulla cittadinanza per gli stranieri, sono la cartina di tornasole di quanto i promotori siano lontani dal quotidiano sentire del popolo italiano. La riprova è l’abbassamento della percentuale dei SI sul quinto quesito esercitato dalla maggioranza dei votanti e la populistica landiniana battaglia coadiuvata dalla estrema sinistra incluso il PD a guida Schlein sul lavoro che ha preso a bandiera la difesa di certe regole in un momento storico certificato di record di occupazione, tralasciando i veri problemi del momento come quelli del salario, della formazione ecc.
Come ormai avviene da molto tempo, si è persa, da ambedue gli schieramenti, la capacità di fare politica, il populismo che è la peggiore piaga di ogni democrazia ha il sopravvento nutrito dalla disinformazione di massa, dalla gestione di forze economiche estranee alle regole che hanno acquisito poteri globali tanto da determinare rapidi cambiamenti fino alla possibile distruzione dell’attuale sistema.
Difronte a tanto marasma viene spontaneo chiedersi se valga la pena, fino a quando residua un briciolo di comune buonsenso, dedicarsi, nelle sedi istituzionali, parlamentari, al raggiungimento condiviso di certe scelte come i nostri padri costituenti ci hanno insegnato, reduci da un sanguinoso periodo storico.
Nel redigere le leggi alla base della nostra democrazia, per tutto il periodo costituente, sono state sullo stesso tavolo, superando le profonde differenze politiche, animati da un solo grande progetto, rifondare una Nazione libera e democratica.
Una di queste leggi ci ha riguardato in questi giorni e tra queste righe.
Concludo augurandomi che l’utilizzo di questa legge torni alle origini quando venne utilizzata per la prima volta, per il divorzio, dopo ben trentadue anni dall’entrata in vigore; solo così le verrebbe restituito il suo significato fondante e le verrebbe tolto il basso profilo populista acquistato in questi anni.

