LA SCOPERTA DEL “DO DI PETTO”

di Pietro Pellegrino


In copertina : a sinistra Gilbert Duprez, a destra Adolphe Nourrit.

Considerato dai melomani incalliti, ma anche dal frequentatore occasionale dei teatri d’opera, la pietra di paragone per saggiare lo “spessore” vocale  di un cantante lirico, il do di petto è per ogni tenore una sfida rischiosa e al tempo stesso un irrinunciabile blasone di nobiltà;  chi  per doti naturali o affinamento tecnico riesce a scalare la nota senza sforzo, è certo di accaparrarsi  l’entusiasmo istantaneo del pubblico, dei loggionisti  in particolare ; chi invece, per calcolata economia di risorse o limiti vocali,  esegue la nota abbassandola di un mezzo o di un tono intero, delusione del pubblico a parte, viene immediatamente declassato a tenore “corto”.  Eppure non è stato sempre cosi nello sviluppo della vocalità operistica. Il do di petto è infatti un’acquisizione relativamente recente nella storia del melodramma e del belcanto con il quale, a essere filologicamente rigorosi, ha poco a che fare. E ‘utile a questo punto un preliminare chiarimento sul significato del termine “belcanto”, a cui il do di petto è tradizionalmente associato come una delle sue cifre più elettrizzanti e seduttive. Va detto che identificare tout court il belcanto, come peraltro è avvenuto nella omonima fresca fiction televisiva, con la grande stagione operistica italiana dell’ottocento (Bellini, Donizetti, Verdi) significa fare del termine un uso improprio, estensivo, genericamente metaforico (sinonimo del “cantare bene”), ma storicamente infondato.

La realtà storica è  che  la pratica del  bel canto si afferma  e si  consolida nell’opera italiana  del ‘600  e ‘700 e  che i suoi connotati essenziali, che si prolungano sostanzialmente intatti fino ai primi dell’ottocento, si identificano nella chiarezza, morbidezza e rotondità del suono, nell’ impasto timbrico sempre levigato  e privo di contrasti  cromatici, e soprattutto in una linea di canto priva di enfasi sentimentale ( il pathos romantico  con la rimodulazione dello stile  vocale è una conquista successiva); in strette parole, il belcanto  è  sinonimo di virtuosismo vocale, che si esprime nel canto fiorito e ornato, svincolato da esigenze realistiche, a sua volta causa ed effetto della subordinazione della parola, cioè del libretto, alla musica e  al gusto edonistico dei cantanti. Questi ultimi, ecco il punto che ci lega all’inizio, erano dotati di una estensione vocale straordinaria che superava i limiti fisiologici segnati dalla differenziazione dei sessi e ciò grazie alla pratica della castrazione dei maschi in età puberale, pratica favorita almeno in Italia, assai meno in Francia, dal divieto ecclesiastico   che impediva alle donne, tranne a pochissime di estrazione nobile, di cantare in chiesa e più generalmente sul palcoscenico. Detto a margine: solo nel 1903 la Chiesa reintrodusse l’obbligo di affidare le parti acute dei canti religiosi, prima sostenute dai castrati, alla voce dei fanciulli, “se dunque si vogliono adoperare le voci acute dei soprani e contralti, queste dovranno essere sostenute dai fanciulli, secondo l’uso antichissimo della Chiesa”, raccomandava papa Pio X. I cantanti castrati – detti anche sopranisti, musici o cantori evirati – (cito per tutti il celebre Farinelli, pseudonimo di Nicola Broschi, dotato di una  estensione vocale che gli permetteva  di salire a note acutissime come il do5 e scendere a note  profonde da basso-baritono come il do2) erano  sbalorditive macchine sonore,  capaci di produrre con facilità e controllo impeccabili virtuosismi di ogni genere, abbellimenti, vocalizzi, trilli, scale ascendenti e discendenti, gorgheggi, variazioni estemporanee. In perfetta consonanza con la poetica della meraviglia tipica del barocco e con la stilizzazione astratta delle passioni e dei personaggi svincolati da ogni pretesa di realismo. Va spiegato che le note acute e acutissime (fisiologicamente appartenenti alla vocalità femminile) erano eseguite in falsetto o falsettone, secondo le regole belcantiste che prescrivevano decoro, compostezza e levigatezza vocale.

Si trattava di una emissione artefatta che, “spostando” la voce “verso l’alto” (voce di testa), alleggeriva e assottigliava il volume, preservando nitidezza, fermezza e smalto del suono. Una tecnica di fonazione che oggi appare, ovviamente, datata e innaturale rispetto ai cambiamenti intervenuti nel gusto vocale e nello stile interpretativo sempre più attento alla sinergia fra parola scritta(libretto) e parola cantata. È stata poi la “svolta” romantica (Bellini, Donizetti, Verdi), con la introduzione di situazioni e personaggi a forte caratterizzazione psicologica e sentimentale, a cambiare le carte in tavola e a rinnovare dall’interno la struttura musicale, tematica e teatrale del melodramma e di riflesso ad aggiornare la pratica del belcanto, rendendola più funzionale alle nuove esigenze drammaturgiche.  Non è un caso che” la scoperta” del do di petto (il do4 nella estensione vocale del tenore) avvenga, anche se in maniera estemporanea, all’interno di un’opera di forte temperatura sentimentale e di tema politico come il Guglielmo Tell di Rossini.

Ecco cosa accadde: la sera del 17 settembre 1831 va in scena al Teatro Comunale del Giglio di Lucca la prima in Italia del Guglielmo Tell, già rappresentato a Parigi nel 1829, con il primo tenore dell’Opera di Parigi, Adholphe Nourrit, raffinato interprete “belcantista” del repertorio rossiniano, nel ruolo di Arnoldo.

Nella compagnia di canto c’ è un giovane tenore venticinquenne, Albert Duprez, che, arrivato alla cabaletta del quarto atto (Amis, amis secondez ma vengeance) dell’aria “asil héréditaire”, che contiene ben sei do4, snocciola senza battere ciglio tutti i do sovracuti con stentorea voce di petto, anziché di testa, come prescriveva la prassi esecutiva. Il fatto fece scalpore, ma il successo fu enorme. Duprez aveva sfondato la parete di cristallo del codice belcantista e senza volerlo impresso una accelerazione improvvisa alla sua carriera. Fu scritturato infatti dall’Opera di Parigi per le recite successive del Guglielmo Tell e divenne stabilmente il primo tenore del teatro parigino, dove cantò ancora per una decina d’anni ritirandosi, forse per la precoce usura dello strumento vocale, a soli 45 anni. 

Rossini, nume tutelare della vocalità belcantista, rimase di stucco di fronte a quello che con la sua proverbiale, acuminata ironia definì “l’urlo di un cappone strozzato” e, invitato una volta Duprez nella sua casa di Parigi, lo pregò, prima di entrare, di lasciare il suo do di petto fuori della porta.

Sulla correttezza della definizione di do di petto la querelle è ancora irrisolta fra vocologi, musicisti e foniatri. Lo stesso Duprez portò legna al fuoco delle sottili distinzioni tecniche, spiegando nelle sue memorie che il suo do era più che un suono di petto (con rinforzo della cassa toracica) un suono “misto”; semplificando gli spinosi tecnicismi della fisiologia del canto: un mix fra voce di testa e voce di petto. Alphonse Nourrit, che dopo l’exploit di Duprez era stato declassato a comprimario nell’Opera di Parigi, venne in Italia a studiare sotto la guida di Donizetti la nuova tecnica di emissione, ma i tentativi di modificare il metodo di fonazione finirono per snaturare e danneggiare il suo raffinato organo vocale; colto da una crisi depressiva si suicidò gettandosi dal balcone del suo albergo a Napoli. Fu la prima e unica vittima del do di petto.

Si riportano di seguito i link, disponibili in YouTube, di  alcune esecuzioni esemplari, divenute storiche, del do di petto:

1-Pavarotti dalla Fille du Règiment di  Donizetti: “ Ah! mes amis” – 9 do di petto -.

2-Corelli dal Trovatore di Verdi: “Di quella pira” – Aria e cabaletta

3-Pavarotti dal Guglielmo Tell di Rossini “o muto asil del pianto/ All’armi”

4-Di Stefano dal “Faust” di Charles Gounod “salut demeure chaste et pure”

https://www.youtube.com/watch?v=nc73cHVM4uM 


mail: pietropellegrino@womenlife.it