IL SEME DEL FICO SACRO

di Alessandra Mattirolo


Girato di nascosto con l’aiuto di una troupe di coraggiosi volontari, “Il seme del fico sacro” racconta, attraverso una magica fusione tra poesia e cruda realtà, la situazione straziante in cui si trova l’Iran degli Ayatollah. Lo stesso regista Mohammad Rasoulof ne è l’esempio vivente. Imprigionato nel carcere di Evin, condannato a otto anni per i suoi film considerati “un crimine contro la sicurezza del paese”, è riuscito a scappare senza passaporto nel maggio del 2024 e ad essere presente alla prima del suo film a Cannes dove ha ricevuto il “Premio speciale della giuria”.

“Il seme del fico sacro” tuttavia non è relegabile solamente ad un atto di eroismo e sebbene sia un film che definirei “necessario”, ha la statura di una vera opera d’arte. E’ la storia di un uomo, Iman, (interpretato da un bravissimo Missagh Zareh) che dopo anni di onesto lavoro riceve finalmente l’agognata promozione e diventa giudice istruttore del tribunale della Guardia Rivoluzionaria. Una gioia per tutta la famiglia, soprattutto per la moglie (interpretata da Soheila Golestani) che vede nel successo del marito la possibilità di una ascesa sociale e del tanto sospirato acquisto della lavastoviglie. Iman, servito e riverito dalla più ossequiosa delle mogli, inizia molto presto a rendersi conto di essere un pupazzo nelle mani del regime, costretto a firmare condanne a morte senza nemmeno conoscere i reati di cui i prigionieri sono accusati. Nelle strade di Theran infatti infuriano le proteste. All’indomani della morte di Masha Amini esplode il movimento “Donna, Vita, Libertà”. La fiction si fonde con le vere immagini della rivolta, girate dai telefonini delle manifestanti. Immagini di atroci violenze e indiscriminate brutalità. Le due figlie adolescenti di Iman, Rezvan e Sana (rispettivamente interpretate da Mashsa Rostami e Setareh Maleki) si sentono vicine alla rivolta ma sono costrette a restare chiuse in casa senza poter nemmeno aiutare la loro amica crudelmente ferita e poi imprigionata dalla polizia di regime.

La casa, in cui il regista riesce a farci sentire gli odori sublimi di una raffinatissima cucina, si trasforma in una prigione. Iman torna sempre più tardi e sempre più incupito. Ha avuto in dotazione una pistola per difendersi da eventuali aggressioni. Tutto cambia.  Iman da padre affettuoso si trasforma nel più temibile dei patriarchi. Nemmeno la moglie, combattuta tra la totale sottomissione al marito e l’amore per le figlie, ormai distanti anni luce dall’intolleranza paterna, riesce più a contenere l’anima nera che si è impossessata del marito. Il film precipita nella tragedia quando la pistola scompare dal luogo in cui viene custodita in casa. Iman accusa di furto moglie e figlie costringendole persino a sottomettersi al più spietato e umiliante interrogatorio.

Ma non c’è solo dolore nel film di Rasaulof. L’ottimismo si può leggere nel titolo stesso: Il fico sacro è quella pianta i cui semi cadono sui rami di altri alberi, germogliano nell’aria ma quando le radici raggiungono il terreno i suoi rami strangolano l’albero ospite. Una metafora del momento storico del Paese. Le ragazze che sventolano in piazza il loro velo e affrontano con incredibile coraggio le guardie della rivoluzione sono i semi del fico sacro, coloro che con tutta la loro energia potrebbero un giorno essere capaci di invertire il corso della storia. Come molti altri film contemporanei, anche questo pecca di troppa lungaggine. Arriva quasi alle tre ore. Resto convinta che con una mezz’ora in meno, nulla verrebbe perso della sua forza, acquistando persino maggiore intensità.


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