DYLAN THOMAS

di Andrea Simi


Gallese di Swansea, alcolista e condannato da questa sua dipendenza a una morte precoce a trentanove anni, nel 1953, Dylan Thomas è certamente uno dei più grandi poeti di lingua inglese del novecento e, forse, uno dei più grandi in assoluto.

Fece una comparsa folgorante sulla scena letteraria, a soli vent’anni, con la raccolta “Eighteen poems”, che conteneva la celebre “And the death shall have not dominion”, frase che ritorna più volte nel testo e che viene tradotta generalmente in modo letterale in: “E la morte non avrà più dominio”. Ma dominion è parola polisemantica che – oltre che semplicemente “dominio” – può significare “potere” o “territorio, spazio posseduto”. Di siffatte ambiguità, che a volte rendono ardua l’opera di traduzione, sono cosparsi i versi di Thomas.

La sua poesia è sempre forte, talora oscura, improntata da una sorta di panteismo mistico, con echi evidenti della tradizione della sua terra e della stirpe celtica. Dentro di essa si muovono le forze occulte della natura, l’energia vitale e generatrice, la spinta sessuale, la magia, la colpa, il peccato, la morte, come correnti che fanno sbattere le imposte turbinando in una stanza vuota.

Oggi leggeremo due poesie che ci consentono di guardare dentro questa stanza. Sono: “La forza che attraverso la verde miccia guida il fiore” e “La mano che firmò la carta”.

La forza che attraverso la verde miccia guida il fiore

La forza che attraverso la verde miccia guida il fiore

Guida la mia verde età; che spacca le radici degli alberi

E’ la mia distruttrice.

E io sono muto per dire alla rosa contorta

Che la mia gioventù è piegata dalla stessa febbre invernale

La forza che guida l’acqua attraverso le rocce

Guida il mio rosso sangue; quella asciuga le correnti alla foce

Vira le mie in cera

E io sono muto per gridare alle mie vene

Come alla fonte di montagna la stessa bocca succhia

La mano che rigira l’acqua nello stagno

Rimescola le sabbie mobili; quella che lega il vento che soffia

Issa la mia vela sudario

E io sono muto per dire all’impiccato

Come della mia creta sia fatta la calce del carnefice

Le labbra del tempo salassano al capo la sorgente

Amore cola e si raccoglie, ma il sangue versato

Calmerà le sue piaghe

E io sono muto per dire il vento del giorno

Come il tempo abbia marcato un cielo attorno alle stelle

E io sono muto per dire alla tomba dell’amata

Come al mio lenzuolo va lo stesso verme contorto

La mano che firmò la carta

La mano che firmò la carta fece crollare una città;

Cinque sovrane dita tassarono il respiro,

Raddoppiarono il globo di morti e smezzarono un paese;

Quei cinque re un re mandarono a morte

La possente mano conduce a una spalla cadente,

Le giunture delle dita sono contratte dal gesso;

Una penna d’oca ha posto fine al massacro

Che ha posto fine ai discorsi.

La mano che firmò il trattato generò una febbre,

E crebbe la carestia, e vennero le locuste;

Grande è la mano che tiene in suo potere

L’uomo con uno scarabocchiato nome.

I cinque re contano i morti, ma non leniscono

La ferita incrostata e la fronte non carezzano

Una mano regola la pietà come una mano regola il cielo;

Le mani non hanno lacrime da spargere.


mail: andreasimi@womenlife.it