A CIASCUNO IL “SUO” RIGOLETTO. LA TORMENTATA STORIA DELLE CENSURE DELL’OPERA VERDIANA.

di Pietro Pellegrino
È noto che lo spunto per la composizione del Rigoletto fu offerto a Verdi dal dramma in 5 atti di Victor Hugo, “Le roi s’amuse”, rappresentato a Parigi il 22 novembre 1832 e, subito dopo la prima, ritirato dalle scene per l’intervento della censura. Le implicazioni politiche e morali del dramma erano considerate provocatorie e inaccettabili anche nel clima timidamente liberale e progressista instaurato dalla monarchia costituzionale di Luigi Filippo I. Mettere in scena e in ridicolo un re di Francia, Francesco I, (il mecenate di Leonardo), degradandolo a libertino erotomane; introdurre come coprotagonista un buffone di corte, Triboulet, deforme e rancoroso, che arriva a architettare il regicidio servendosi di un killer professionista (Saltabadil), per vendicare l’onore violato della figlia (Blanche, nomen omen); il tutto sullo sfondo mormorante di cortigiani debosciati e piaggiatori, erano ciascuno per sé e tutti insieme elementi destinati a urtare il perbenismo conservatore e lealista del pubblico e allertare la pruderie politica degli organi di censura. Se si aggiunge il geniale coup de théâtre escogitato da Hugo e ripreso alla lettera da Verdi nel Rigoletto, -l’uccisione di Blanche, l’unico personaggio positivo del dramma che sceglie di morire per amore del re fedifrago – si capiscono le ragioni per cui “Le roi s’amuse” fosse percepito come una infrazione scandalosa del codice etico-politico del tempo. Non stupisce perciò che già all’ indomani della prima il dramma sia stato colpito dalla interdizione della censura e “riammesso” sulle scene soltanto 50 anni dopo, nel 1882, sotto la Terza Repubblica, in un clima politico-culturale più favorevole alla sua ricezione.
Va detto subito che fra Verdi e il dramma di Hugo ci fu il classico colpo di fulmine. La tinta scura, i contrasti netti, la crudezza dei nodi drammatici che si sciolgono in un finale tragico e paradossale (muore la purissima Blanche, vittima del suo amore incondizionato) colpirono Verdi, che con il sicuro fiuto di uomo di teatro intuì, alla prima lettura, le potenzialità drammatiche e musicali del testo francese. Non a caso, quando la Direzione del Teatro la Fenice di Venezia gli commissionò un’opera nuova per l’inaugurazione della stagione lirica 1850-1851, Verdi affidò a F.M. Piave la stesura del libretto, che doveva essere sì esemplato sul dramma di Hugo, ma ridotto a misura teatralmente più efficace. E Piave rispettò alla lettera la consegna verdiana. Nella “riscrittura” librettistica i 1681 versi di ” Le roi s’amuse”(tutti alessandrini- versi di 12 sillabe -, il metro elettivo della poesia francese) furono snelliti a 707 di varie, più libere misure metriche (endecasillabi, settenari, senari). La titolazione dell’opera doveva essere nel progetto iniziale di Verdi-Piave “La maledizione” (tema chiave che apre e chiude il Rigoletto). Fu la pruderie religiosa dei censori austriaci a suggerire subito a maestro e librettista di ripiegare su una denominazione più anonima, meno cattolicamente esposta: “Il duca di Vendôme”, che va considerato l’antecedente prossimo, il cartone preparatorio del Rigoletto definitivo. Non è qui possibile, per ragioni di spazio, ricostruire la complessa e puntigliosa trattativa fra Verdi-Piave e la censura austriaca (è il caso di ricordare che Venezia, con il trattato di Campoformio del 1797, era stata ceduta da Napoleone all’Austria) affiancata, con ruolo di mediatrice bipartisan, dalla Direzione del Teatro. Tagli, riscritture e correzioni testuali anche di una sola parola furono imposte alla versione originaria del libretto, e fu solo grazie alla “resilienza” di Piave e all’ abilità diplomatica della direzione del teatro se si raggiunse un compromesso che salvava insieme le ragioni censorie e quelle teatrali rivendicate con forza da Verdi. Mi limito a qualche esempio rivelatore: i nomi dei personaggi subiscono già nel “Vendôme”, rispetto al dramma di Hugo, un primo, definitivo assestamento: Triboulet, il giullare di corte, diventa Rigoletto (dal francese “rigoler”, che significa “scherzare”” divertirsi”); il re Francesco I è declassato, per opportunità politica, a duca di provincia, l’azione dislocata da Parigi a Mantova, (dove, a scanso di postume suscettibilità genealogiche, la dinastia dei Gonzaga era ormai estinta da più di un secolo), la Blanche di Hugo diventa Gilda, il sicario Saltabadil un più minaccioso Sparafucile, Maguelonne, sorella di Saltabadil, – in Hugo una entraîneuse “ Qui danse dans la rue,” e ” attire… le galant“- è stemperata in una Maddalena (sorella di Sparafucile) adescante ma non sguaiata; Monsieur de Saint-Vallier trapassa nell’austero conte di Monterone (l’autore della maledizione, fil rouge tematico del Rigoletto).
La censura intervenne anche sul tessuto linguistico del libretto originario per neutralizzare i punti in cui più scoperta era l’infrazione della morale corrente; qualche esempio significativo: “chiesa/tempio” sono sostituiti in “Vendôme” dai più laici “balcone e via”. Salvo il successivo ripristino di “tempio” (nell’aria di Gilda “tutte le sere al tempio“) nel Rigoletto. Il verso ” non v’ha amor, se non v’è libertà” nell’aria di entrata del duca “Questa o quella” patisce nel “Vendôme” una variante incongrua (“se non v’è varietà”), che rimuove la connotazione politica di “libertà”, ma amplifica goffamente la sregolatezza affettivo-sessuale del duca. Tuttavia, per uno dei tanti compromessi negoziati da Piave con la censura, “libertà,” viene reintrodotta, pur con il suo doppiofondo erotico-politico, nel Rigoletto definitivo. Anche un elemento scenico, come il sacco che racchiude il cadavere di Gilda, indigesto alla censura, viene cancellato nel “Vendôme”, per poi essere riammesso (sul punto Verdi fu irremovibile) nel Rigoletto.
L’ intervento censorio pretese ancora nel “Vendôme” che a Rigoletto fosse tolta la gobba e restituita così una minima “presentabilità” scenica, essendo l’”esposizione” teatrale del brutto incompatibile con la funzione stilizzante e metarealistica dell’opera lirica. La gobba (da Verdi considerata stigma fisico irrinunciabile) venne però reintrodotta nella versione “approvata” del Rigoletto. Un altro punto notorio è la battuta con cui il duca di Mantova, giunto nell’osteria sul Mincio, si rivolge a Sparafucile, in modi più che spicci scurrili, chiedendo: “tua sorella e del vino” (fedele calco del testo francese “ta soeur et mon verre”),battuta che nel passaggio da Vendôme a Rigoletto vira in una più appropriata ma non meno allusiva richiesta: “una stanza e del vino”.
Resta comunque il fatto che, grazie alla sostituzione dei nomi francesi, allo spostamento dell’azione dal centro della corte parigina alla periferia di una cittadina veneta, alla accorta “spoliticizzazione” del testo di Hugo (il re diventa un irrilevante duca di provincia) Verdi riuscì a conservare sostanzialmente intatto l’impianto drammaturgico e l’impatto teatrale del “suo” Rigoletto, che andò in scena alla Fenice di Venezia l’ 11 marzo del 1851, con immediato successo di pubblico e sostanziosi introiti derivanti alle casse malridotte del Teatro dalle 14 repliche nello stesso mese e dalle 17 nella stagione successiva. Ma nella storia delle “censure” del Rigoletto questo è solo il primo capitolo.
Conseguenza diretta della frammentazione politica italiana era che ogni stato aveva autonomi e specifici organi di controllo e di censura della produzione artistica, che agivano con sensibilità e rigore diversi sulla base di regolamenti locali. Per quanto valesse il principio largamente condiviso “Nihil de principe, parum de Deo” – un chiaro invito a schivare temi politici e possibilmente religiosi – quando un’opera teatrale o musicale usciva dai confini dello stato in cui aveva ricevuto l’”admittitur” (approvazione), era sottoposta di nuovo alla censura preventiva dello stato in cui doveva essere rappresentata.
Esemplare del “particolarismo” censorio è il caso dello stato pontificio. Qui la censura papalina, in occasione della prima del Rigoletto a Ferrara (aprile 1851) e successivamente al Teatro Apollo di Roma (1853) esibì un rigore controriformistico, da concilio tridentino.
Particolarmente acre fu la posizione del Belli, uno dei più influenti censori del “grand jury” papalino, che si dichiarò nauseato dal “putrido soggetto di questo dramma”. Nel 1854 l’anonimo estensore della Civiltà Cattolica rincarava la dose, chiosando l’opera come luogo di:”cupe trame, perfidi tradimenti, talami disonorati, vendette, odii, iniquità“.
È importante qui chiarire che la censura dello stato pontificio, per quanto sensibile ai sottintesi politici, lo era ancora di più alle implicazioni religiose, alla “filigrana” dottrinaria dell’opera. La Maledizione, motore primo del dramma, che agisce come una forza ingovernabile, sottratta al libero arbitrio dell’uomo e mossa da una cupa necessità interna, esclude nel Rigoletto l’intervento dall’alto della giustizia divina provvidenziale e pererequatrice. E autorizza il sopruso di una feroce giustizia umana alternativa a quella divina, (la vendetta appunto di Rigoletto); l’opposto del messaggio evangelico e dell’etica del perdono biblicamente fondata. Il Rigoletto riuscì comunque a passare le maglie strette della censura pontificia, sotto le mentite spoglie di “Viscardello”, cosi ridenominato astutamente dall’editore Ricordi, nonostante l’opposizione tranchant di Verdi, che in una lettera a Ricordi scriveva, caustico e risentito, circa le “alterazioni” e “mutilazioni” introdotte nel Rigoletto/Viscardello:” Rigoletto, poesia e musica di Don…/ e qui il nome del censore“. Il pedaggio da pagare alla censura fu che l’azione veniva spostata a Boston (avverrà lo stesso con il Ballo in Maschera), il duca di Mantova diventava un peregrino duca di Nottingham, (quasi che allontanare il referente geografico, distanziare la trama in un altrove servisse a depotenziare la temuta carica politico-morale del dramma), Rigoletto ridenominato Viscardello, ai nomi aggiunto qualche ritocco mimetizzante (Marullo passa a Marnullo, Monterone a un francesizzante Monrand). Sistemato il coté politico dell’opera, gli altri interventi censori miravano ad assicurare il massimo possibile di castigatezza esteriore, moralità edificante e ortodossia dottrinale. Qualche esempio, fra i più vistosi: la battuta del Duca in Rigoletto ” una stanza e del vino” è sostituita in Viscardello da “da sedere e del vino“; Maddalena da zingara moderatamente lasciva è convertita in sorella virtuosa e servizievole (aiuta il fratello nella “gestione” della locanda), la “giusta vendetta” di Rigoletto/Viscardello ribaltata in “stolta vendetta “.Variante approvata perfino dal Belli, con la quale la vendetta, anticristiana e antievangelica, veniva derubricata a gesto individuale, irrazionale e irresponsabile. Allo stesso modo la disperata esclamazione finale di Rigoletto di fronte al cadavere di Gilda , “Ah, la maledizione! “, è trasfigurata dal censore in rassegnazione cristiana, (per quanto teatralmente poco plausibile): “Oh giustizia del cielo!!!“.
In una rappresentazione romana del Viscardello si arriva addirittura al paradosso moralistico di “riscrivere” il finale dell’ opera, trasformandolo in un happy end da opera buffa: Gilda è solo ferita, ma sopravvive, da cui il doppio corollario edificante : da un lato si ricompone il legame affettivo-familiare, dall’altro il padre è salvo dalla disperazione e dal peccato. L’ ordine cristiano e teologico è così forzatamente ristabilito.
Una postilla merita infine il duca che rispetto al Rigoletto veneziano perde alquanto la verve libertina di vorace dongiovanni e anziché sedurre Gilda, è conquistato dal suo candore e si dichiara con formule rassicuranti di convenzionale eleganza: ” sposo tu chiamami, la man mi appresta” .
Ma la storia del Rigoletto censurato non finisce qui.
Nel 1853 l’opera approda a Napoli, dove la censura borbonica impone non solo la riscrittura radicale dei nomi delle dramatis personae ma anche un energico distanziamento temporale e topografico (l’azione è retrodatata al 1349, in Inghilterra ) ; il titolo è mutato in Clara di Perth, ridenominazione di Gilda, il duca di Mantova diventa Enrico barone di Perth, una brumosa città della Scozia, Rigoletto un sussiegoso Archibaldo, Sparafucile -> Tony strangolabene– semiseria garanzia di zelo professionale-, per restringermi ai personaggi principali. La rituale pruderie politico-religiosa dei censori borbonici promuove inoltre, come nel Viscardello, il riscatto morale del duca che apparirà sì passabilmente vanesio e graziosamente libertino ma senza coazione erotica e soprattutto convertito ai buoni sentimenti dall’amore cristiano per Clara/Gilda (tributo doveroso alla morale edificante), mentre il polo negativo si sposta esclusivamente su Archibaldo/Rigoletto.
L’ultima edizione riveduta e corretta del Rigoletto, è quella che, con il nuovo titolo di “Lionello”, va in scena nel 1855 a Palermo, dove la censura borbonica impone un altro changeover dei luoghi (Verona del XVI secolo) e dei nomi: Rigoletto ora è Lionello, il duca di Mantova -> Marcello, Gilda -> Bice, Sparafucile -> Lamafedele(allusione al rapporto di omertosa dipendenza fra committente ed esecutore). Si assiste inoltre rispetto alla versione “napoletana” al rovesciamento della prospettiva del male e del giudizio etico: Il duca (Marcello) torna ad essere un libertino amorale, subdolo e fedifrago, mentre a Lionello/Rigoletto viene restituita una funzione complementare e tragicamente antagonistica al duca.
Compiuta l’unità d’Italia nel 1861, Rigoletto, nella forma testuale e musicale che conosciamo (quella della prima veneziana del 1851) ha avuto libero corso in tutti i teatri del mondo, come uno dei capolavori verdiani che è riuscito a superare indenne la barriera di fuoco delle censure più oscurantiste

