NABUCCO: IL “DOPPIO” RISORGIMENTO DI GIUSEPPE VERDI

di Pietro Pellegrino
ll “Nabucodonosor”, titolo della partitura autografa di Verdi, poi abbreviato in Nabucco, è la terza opera lirica composta da Verdi per il teatro alla Scala, dove andò in scena il 9 marzo 1842 con immediato successo di pubblico e critica , tanto che fu ripresa ben settantacinque volte nello stesso teatro entro la fine dell’anno. Dopo l’incerto inizio di” Oberto, Conte di San Bonifacio” e il fiasco senza appello di “Un giorno di regno”, (opera comica depennata dal cartellone subito dopo la prima, a dimostrazione che il genere buffo non era ancora nelle corde del giovane compositore), entrambe scritte per e andate in scena alla Scala, Nabucco segna uno snodo fondamentale nella carriera musicale di Verdi e ne certifica l’iscrizione fra i grandi operisti dell’ ottocento italiano accanto a autori di consolidato prestigio come Bellini, Donizetti, Mercadante. Per ricostruire la genesi del Nabucco occorre rifarsi a fonti documentarie basate su testimonianze indirette che sono state filtrate e rielaborate (data anche la distanza temporale dalla prima rappresentazione) in due libri considerati, sia pure con qualche riserva, i riferimenti storicamente più attendibili.
Il primo, che ha avuto più ampia circolazione, è la biografia di Verdi pubblicata nel 1886 dallo studioso francese Arthur Pougin (“Histoire anecdotique de sa vie et des ses oeuvres” tradotto in italiano nel 1881) che rielabora con accattivante taglio romanzesco le dichiarazioni autobiografiche rilasciate da Verdi nel 1879 al suo editore Giulio Ricordi sulla genesi del Nabucco; il secondo, scritto dal medico e letterato Michele Lassona, e pubblicato nel 1869, “Volere è potere”, (titolo dichiaratamente didascalico) contiene un capitolo dedicato al “caso” Verdi come esempio da manuale di “self-made man” e riporta la conversazione sul Nabucco avuta con Verdi durante un incontro alle terme di Tabiano.
I due testi, in buona sostanza, sono concordi nel riconoscere il ruolo della causalità esterna nella genesi del Nabucco, divergono però nell’individuarne il punto d’origine.
Ma partiamo per ora dai dati biografici storicamente accertati: il triennio 1838-1840 è il peggiore e più doloroso attraversato da Verdi, per una serie di eventi che sbriciolano la tranquilla e ordinata dimensione della sua vita familiare. Nel 1838 muore la figlia Virginia di poco più di un anno, il 22 ottobre 1839 muore il secondo figlio Licinio coetaneo di Virginia; il 20 giugno 1840, mentre Verdi sta perfezionando “Un giorno di regno”, muore per un attacco di encefalite acuta la moglie Margherita Barezzi. Il 5 settembre dello stesso anno va scena “Un giorno di regno” che “implode” rovinosamente alla prima e viene cassato dal cartellone della Scala.
Questo lo sfondo “esistenziale” in cui Verdi a 27 anni prende la decisione (più esattamente: è sopraffatto dalla decisione), che comunica subito a Bartolomeo Merelli, impresario del Teatro alla Scala, di non volere più scrivere nemmeno una nota. Verdi ritorna per qualche giorno a Busseto, trovando un provvisorio conforto negli accoglienti Lari e Penati di casa Barezzi, il suocero; poi è di nuovo a Milano dove trascorre alcuni mesi, chiuso in un dolore cupo e accidioso. Immerso, a dare retta al Lessona, nella lettura di “romanzacci” di terz’ ordine. Verdi peraltro ha sottoscritto un contratto che prevede la scrittura di una terza opera oltre quelle già andate in scena e la sua rinuncia a comporre non può essere passivamente accettata dal Merelli; la Scala è anzitutto una impresa commerciale, finanziata per lo più dalla ricca nobiltà milanese grazie all’affitto dei palchi, vincolata a rigorose esigenze di bilancio che impongono un cartellone aggiornato che assecondi la richiesta di novità del pubblico. E Merelli, da navigato impresario, sa come gestire la delicata impasse, senza far confliggere interessi commerciali e comprensibili ragioni umanitarie. Userà la classica mano di ferro in guanto di velluto. Incalza Verdi con calcolata, sorniona bonarietà, lo lusinga, confermandogli la sua fiducia e minimizzando l’insuccesso de “Un giorno di Regno”; Verdi dapprima si mostra irremovibile, ma alla fine prevale la “ragion di stato” commerciale, da cui scaturisce un compromesso provvidenziale per la genesi del Nabucco e per le finanze del teatro. Verdi restituisce a Merelli il libretto di Gaetano Rossi “Il Proscritto” che avrebbe dovuto musicare come da contratto, Merelli girerà “Il Proscritto” al compositore tedesco Otto Nicolai, reduce dal successo del “Templario” al Regio di Torino, che a sua volta aveva rifiutato il libretto di Temistocle Solera “Nabucodonosor”, affidatogli da Merelli per essere musicato, perché pieno, secondo il suo gusto, di “rabbia perpetua, spargimento di sangue, maledizioni, frustate e omicidi”. A questo punto, Merelli con disinvolta forzatura infila nella tasca del soprabito di Verdi il libretto di Solera; dargli un’occhiata non costerà nulla al maestro… e poi…
E’ con questa “partita di giro” che inizia la storia del Nabucco. Aggiungo per dovere di cronaca che Otto Nicolai (di Könisberg, la stessa città di Kant) ha lasciato una sola traccia significativa nella storia della musica con l’opera comica “Le allegre comari di Windsor” e che ” Il Proscritto,” andato in scena alla Scala nel 1841, si rivelò subito un fiasco e fu ritirato dal cartellone dopo una sola recita.
Cosa spinse dunque Verdi a musicare il libretto di Solera, oltre la moral suasion esercitata da uno scaltrito uomo di teatro come il Merelli? Le spiegazioni contenute nei due testi di riferimento sono abbastanza sovrapponibili (tolta la già accennata diversità della tecnica narrativa)tranne nella individuazione del punto del libretto che catalizza casualmente l’attenzione di Verdi:
Ecco quanto riporta in presa diretta (sceneggiando la voce di Verdi)il Pougin, nel 1881, 39 anni dopo la prima del “Nabucco”:
“rincasai e con un gesto quasi violento, gettai il manoscritto sul tavolo, fermandomi ritto in piedi davanti. Il fascicolo cadendo sul tavolo stesso si era aperto: senza saper come, i miei occhi fissano la pagina che stava a me innanzi e mi si affaccia questo verso: Va’, pensiero, sull’ali dorate. Scorro i versi seguenti e ne ricevo una grande impressione, tanto più che erano quasi una parafrasi della Bibbia, nella cui lettura mi dilettavo sempre… un giorno un verso, un giorno l’altro, una volta una nota, un’altra volta una frase …a poco a poco l’opera fu composta.”
La versione del Lessona (che adotta una più neutra terza persona) localizza invece l’innesco della risoluzione verdiana di musicare il libretto nella scena della morte di Abigaille contenuta nel finale dell’ opera.
Leggiamo: “un bel giorno poi, sul finire di maggio, quel benedetto dramma gli ritornò fra mano: rilesse un’ultima scena, della morte di Abigaille (la qual scena fu poi tolta), s’accostò al pianoforte, quel pianoforte che si stava muto da tanto tempo, e musicò quella scena. Il ghiaccio era rotto”(Lessona 1869). Versione che Verdi sembra convalidare, riferendosi al testo del Lessona, in una lettera al suo amico, conte Opprandino Arrivabene: «Eccoti la storia mia vera, vera, vera”.
Incertezze a parte sull’autentico movente della genesi del Nabucco, non si possono non sottoscrivere le parole di Verdi ” Con quest’opera si può veramente dire che ebbe principio la mia carriera artistica”.
Una postilla va aggiunta per chiarezza sul coro ” Va, pensiero”. La vulgata interpretativa, riveduta e corretta negli ultimi anni dai musicologi, vuole che, già in occasione della prima, il coro sia stato percepito dal pubblico in chiave patriottica, antiaustriaca, come metafora di aspirazioni libertarie e unitarie e bissato a richiesta generale. In realtà, da ricerche documentarie più approfondite risulta che il pubblico richiese il bis del secondo coro, ” Immenso Jehovah”, non di quello che sarebbe diventato più famoso. D’altra parte il “Va, pensiero” si modula come distesa, virile elegia di un popolo vinto che rimpiange la patria perduta, priva di apparenti accenti di rivolta che ne potevano favorire, almeno nella prima, una lettura politica, in senso risorgimentale. E’ negli anni successivi, irrobustito e allargato il consenso alla causa dell’unità italiana, che il coro, anzi i cori verdiani di più scoperto tema politico, ( “O Signore dal tetto natio” dai “Lombardi alla prima crociata”, “Si ridesti il Leon di Castiglia” da “Ernani”, “O Patria oppressa” da “Macbeth”) assumono nella percezione popolare una funzione fiancheggiatrice del movimento risorgimentale, sia prima che dopo l’unificazione nazionale, come potente evocazione musicale di una identità storica da recuperare e custodire. Il Nabucco esemplifica nell’itinerario verdiano l’inizio di un doppio simultaneo processo: la decontestualizzazione di un elemento strutturale del melodramma (il coro) e la sua appropriazione sentimentale e ideologica su scala nazionale (il coro-nazione).
Da allora l’archetipo dei cori verdiani( “Va, pensiero”) è entrato nella memoria collettiva della nazione come segno distintivo di una epoca e di un patrimonio ideale condiviso da tutte le classi sociali.