LA ZIA JULIA E LO SCRIBACCHINO

di Elisabetta Marini
Il 13 aprile ci ha lasciati Mario Vargas Llosa uno dei più grandi intellettuali contemporanei, il creatore insieme a Carlos Fuentes, Isabel Allende e Gabriel Garcia Marquez (con cui ha avuto rapporti di amore e odio culminati con un pugno sul viso di Marquez!) del boom letterario latinoamericano.
Uomo eclettico e inquieto oltre che romanziere è stato drammaturgo, saggista, conferenziere, giornalista, poeta e politico (si presentò per il partito liberale alle elezioni presidenziali del Perù nel 1990 vinte da Fujimori).
Inquieto nella vita – ha vissuto in Spagna, Francia, Inghilterra, ha avuto 3 mogli (la seconda lasciata dopo 50 anni di matrimonio) – come nella scrittura, che ha affrontato sperimentando generi letterari molto diversi.
All’esordio ebbe un consistente successo con tre libri scritti tra il 1963 e il 1969 (“La città e i cani”, “La casa verde” e “Conversazione nella Cattedrale”) in cui emergevano già i temi fondamentali della sua narrativa: l’interesse per gli argomenti sociali e politici; lo stile caratterizzato dalla sovrapposizione di tempi e piani narrativi; l’amore per “la finzione realista”.
Negli anni 70 cambiò genere e pubblicò due libri decisamente umoristici, che incontrarono il favore del pubblico tanto che da “La zia Julia e lo scribacchino” fu tratta prima una versione televisiva e poi una cinematografica.
Ed è questo il libro che ho scelto di rileggere per celebrare Vargas Llosa. Un libro che raccoglie in sé tutte le caratteristiche del suo universo letterario arricchito, però, da una sottile ironia che lo pervade e che sfocia a volte in vera comicità.
Raccontare anche solo per sommi capi la trama del romanzo è molto complesso, tanto è ricco di personaggi e situazioni. La suddivisione in venti capitoli è un indispensabile elemento narrativo che aiuta il lettore a orientarsi tra personaggi e situazioni. I capitoli dispari (con la sola eccezione del ventesimo) narrano in prima persona la storia di Mario, diciottenne limegno che vive con i nonni mentre studia diritto all’università Mayor de San Marcos e lavora al notiziario di radio Panamericana. Il giovane, che si diletta a scrivere brevi racconti, si innamora perdutamente di una zia acquisita, di 32 anni, boliviana, divorziata e arrivata a Lima in cerca di un nuovo marito. Ognuno di questi dettagli corrisponde alla vita reale dell’autore. Ma non siamo di fronte a un’autobiografia (genere che affronterà ne “Il pesce nell’acqua” scritto nel 1994). Semplicemente, come in tutti i libri di Vargas Llosa la realtà è sempre presente, è fonte di ispirazione ma viene leggermente adattata per motivi stilistici o di trama. Così “La zia Julia e lo scribacchino” è dedicata: “A Julia Urquidi Illanes, cui tanto dobbiamo io e questo romanzo”. Non solo, nel caso al lettore fosse sfuggita la dedica, già nei primi capitoli dispari l’autore introduce i nomignoli di Marito e Varguitas utilizzati da Julia per chiamare Mario.
Il libro non incontrò l’apprezzamento di Julia che ritenne indispensabile chiarire le cose dal suo punto di vista con il libro “Quello che Varguitas non ha raccontato” del 1979. Sicuramente Vargas Llosa non sarà rimasto sorpreso di questa reazione, avendo teorizzato: “Non si scrivono romanzi per raccontare la vita ma per trasformarla, aggiungendovi qualcosa”.
La scrittura nei capitoli dispari è in prima persona, scorrevole, piana, facile nella lettura. E i difficili rapporti con il padre e l’avvolgente affetto della grande tribù di parenti materni, in primis i nonni con cui l’autore ha vissuto i primi anni della sua vita, emergono con evidenza. Così come la sua passione per la scrittura e il sogno di avere una vita da bohémien a Parigi.
In questi capitoli appare, quasi fosse un coprotagonista, il personaggio letterario di Pedro Camacho che interagisce costantemente con il protagonista. Personaggio accattivante nella sua follia. Originale, paradossale, involontariamente comico, totalmente egocentrico, ossessionato dal proprio lavoro di scrittore di romanzi radiofonici (prodromi delle future telenovelas definiti nel libro “semplici bambinerie per passare il tempo” in contrapposizione ai “libri che erano la cultura”). Pedro Camacho è un boliviano refrattario ai rapporti umani che però accetta la compagnia di Mario considerato da lui un artista, seppur non al suo livello. Pur non apparendo mai nei capitoli pari ne è il personaggio principale in quanto autore, regista e attore dei romanzi radiofonici narrati in quella parte del libro.
Qui la scrittura passa alla terza persona. Diventa complessa, roboante. (“Un riverbero azzurrino si insinuava nel cielo e dalla nerezza sorgevano spettrali, grigiastri, arrugginiti, affollati, gli edifici del Callao”). E più si procede nella lettura e più la prosa diventa articolata, ricca di incisi esplicativi resi complessi da altri incisi contenuti al loro interno. L’autore utilizza parole desuete ma ficcanti che rendono la lettura difficile ma, in quanto tale, paradossalmente comica. Questi capitoli si leggono con un costante sorriso sulle labbra che talvolta sfocia in vera risata. Non sappiamo se la realtà entra nelle trame dei romanzi radiofonici (forse qualche notizia sentita o tratta dai giornali; Vargas Llosa amava ambientare in Perù o in America Latina i suoi romanzi e, per trovare ispirazione, tornava ogni anno a Lima per qualche mese) ma certamente in essi la sovrapposizione di tempi, personaggi, situazioni, col procedere del racconto assurge a livello di caos generale. I personaggi cambiano ruolo, nome, caratteristiche fisiche e le situazioni si trasformano (una partita di football diventa una corrida). Alle morti catastrofiche di tutti i personaggi corrispondono improbabili resurrezioni di alcuni di essi in ruoli diversi. La contaminazione è totale. La mente confusa di Pedro Camacho, seguita all’eccessiva foga lavorativa e all’impellenza di scrivere, è narrata con tale originalità da ingenerare nel lettore una divertita e volontaria sospensione della incredulità.
Un libro umoristico ma colto, raffinato, realistico e al contempo paradossale. L’autore con una padronanza unica, e difficilmente ripetibile, passa da uno stile all’altro, dal serio al faceto. Un unicum imperdibile. Vargas Llossa riesce a farci sorridere senza distaccarsi mai dalla sua colta impostazione letteraria. Nel corso della sua lunga attività ha ricevuto i più importanti premi e riconoscimenti internazionali e 21 lauree e dottorati honoris causa, culminati nel 1990 nel Premio Nobel.
Un romanzo con lo spessore culturale di una volta, quando la letteratura trovava poco spazio tra i media e la pubblicazione di un nuovo libro era un evento culturale ben lontano dall’odierno evento mediatico e industriale. E gli autori erano letterati scrittori e non (come direbbe Vargas Llosa) scribacchini come troppo spesso, ahimè, capita oggi.
SCELTI PER TE

Chiassovezzano, di Piero Dorfles, Ed. Bompiani, 202 pagine, pubblicato nel 2024.
Nel sottotitolo “Una casa e una famiglia temeraria in tempo di guerra” c’è già racchiuso tutto il senso del libro. Dorfles usa la descrizione di ogni singola stanza di Chiassovezzano, la casa di campagna della sua famiglia nel paese di Lajatico, in provincia di Pisa, non lontana da Volterra, per narrare la vita e le esperienze che i suoi familiari vissero in esse durante la guerra tra il ‘43 e il ‘45. La famiglia Dorfles, ebrea di origini tedesche, viveva ben integrata a Trieste sino a che non furono costretti a scappare nel ‘43 per rifugiarsi nella tenuta di Chiassovezzano acquistata dal nonno paterno poco tempo prima. Purtroppo questo luogo, inizialmente molto tranquillo, si trasformò presto nel punto in cui maggiore fu la resistenza tedesca all’avanzata degli alleati e la famiglia si trovò costretta a convivere per un lungo periodo con un colonnello tedesco. Il libro, pur trattando temi forti si legge con piacere in quanto privo di quel pathos che solo chi ha vissuto in prima persona le esperienze narrate imprime tra le righe. Dorfles, invece, è nato nel ’46 e riporta, con freschezza e leggerezza, le narrazioni sentite tante volte durante la sua infanzia e stralci di corrispondenza intercorsa tra i suoi familiari.

Cose che non si raccontano, di Antonella Lattanzi, ed. Einaudi, 216 pagine pubblicato nel 2023
Ci sono cose che non si raccontano perché le parole sono scogli nel mare. Ci sono cose che non si raccontano per vergogna, rabbia, troppo dolore, e perché se non le racconti, in fondo puoi sempre credere che non siano successe. In questo libro, entrato giustamente nella dozzina finale del premio Strega 2024, la bravissima Antonella Lattanzi con linguaggio forte, feroce, incalzante narra una storia personale, altrettanto feroce.
In piena pandemia Covid l’autrice intraprende un lungo e doloroso percorso di fecondazione assistita. Ma la sorte si accanirà duramente su di lei e i feti che riusciranno a impiantarsi – feti vissuti, da subito, dalla scrittrice e dal suo compagno come figli. Tra errori umani e avvenimenti il cui verificarsi ha possibilità statistiche inferiori a zero (gravidanza monocoriale triamniotica), l’autrice passerà un anno drammatico che metterà a dura prova il suo stato fisico e il suo equilibrio psichico.
Un libro intenso, drammatico, ma contemporaneamente un inno alla maternità, un’esaltazione della forza di volontà che spingerà la Lattanzi a pensare positivamente anche difronte alle più spietate evidenze Ho imparato che la speranza quando è troppa diventa certezza. Un racconto che non lascia indifferenti e che la forte scrittura dell’autrice arricchisce ulteriormente di pathos.

