ARNAUT DANIEL

di Andrea Simi
Facciamo un grande salto all’indietro nel tempo, fino al dodicesimo secolo, che vide quella che è stata definita una piccola rinascita, ben prima del rinascimento vero e proprio.
Nella seconda metà del secolo si mosse Arnaut Daniel, forse il più celebrato dei trovatori, al quale lo stesso Dante dedica ampio spazio nel canto XXVI del Purgatorio, dove – per bocca di Guido Guinizelli – lo definisce “miglior fabbro del parlar materno”.
Per Arnaut, perigordino di nascita, il “parlar materno” era la lingua d’oc, che si è quasi smarrita nel francese moderno, improntato prevalentemente alla lingua d’oil, ma che vive e risuona ancora nell’ occitano parlato in alcune valli piemontesi e delle alpi provenzali, e della quale rimangono tracce nella lingua catalana.
Di Arnaut non vi sono quasi notizie biografiche; la sola certezza è che era in vita intorno al 1180, in quanto assistette alla incoronazione di Filippo secondo Augusto, settimo re della dinastia Capetingia.
Si dicono di lui diverse cose, tra le quali che fosse un gentiluomo di buoni natali e buoni studi, abbandonati per diventare un giullare, e che amasse una dama di Guascogna dalla quale asseriva di essere ricambiato (ma sembra anche che in molti non credessero a questa storia, giudicata una millanteria).
Fu autore di canzoni e sirventesi dove, non di rado, accanto ai temi tipici della poesia cortese, come l’elogio della dama destinataria e le profferte d’amore, compaiono note ironiche e perfino grottesche, che sembrano quasi precorrere Francois Villon.
La poesia di Arnaut è elegante e immaginosa; la natura nelle diverse stagioni spesso le fa da sfondo e da occasione. Talora è oscura; risponde al canone del “trobar clus”, letteralmente “trovare”, cioè poetare, “chiuso” in quanto può essere compreso appieno esclusivamente da chi è in possesso della chiave: vale a dire la stessa donna amata, mai nominata espressamente ma solo per mezzo del senhal, un appellativo convenzionale, di copertura.
Arnaut fu inventore di molte parole, che non sono attestate nei componimenti degli altri autori coevi, e di complessi schemi poetici in rima, in particolare della sestina.
Con molta improntitudine ho scelto di tradurre personalmente la canzone che segue, pur non avendo la specifica competenza filologica per l’impresa. Ma ero e sono incuriosito dai suoni di questa lingua quasi scomparsa. Ho comunque tenuto conto delle versioni esistenti (tra loro significativamente diverse) e ho cercato, soprattutto, di non disperdere l’anima della poesia di Arnaut per inseguire a tutti i costi la precisione letterale dei significati.
Quando cade la foglia
Quando cade la foglia
dalle più alte cime
e il freddo se ne orgoglia
mentre secca salice e nocciolo
dei dolci ritornelli
vedo insordir la boscaglia:
ma io sto vicino
all’Amore, chiunque si tolga
Tutto quanto è gelo
ma io freddo non posso sentire
perché l’amor novello
mi fa il cuore rinverdire
tremar non devo
perché Amor mi copre e cela
e mi conserva
la mia virtù e mi guida.
Buona è la vita
se Gioia la sostiene,
anche se sgrida quello
cui non va tanto bene;
perché in fede mia
del meglio ho la mia parte.
Dei fatti d’amore
non mi posso lagnare
chè l’altrui compagnia
si trasforma in regresso;
con nessuna sua pari
so appaiar la mia amata,
chè nessuna ne appare
che seconda non sia
Non è certo crudele
quella cui sono amico;
e fino in Savoia
più bella non c’è:
talmente mi piace
che ne ho ancor più gioa
che da Elena Paride
quello di Troia.
Non voglio si unisca
Il cuor mio ad altro amore
sì che a lei mi sottragga
e mi giri altrove:
manco ho paura
che quel di Pontremoli
più graziosa ne abbia
o che a lei rassomigli
Tanto è gentile
quella che mi dà gioia
le più graziose trenta
vince per il bel viso:
è giusto allora
che i miei canti ascolti
lei che nobile è tanto
e di gran pregio ricca.
Va tu, canzone
presentati a lei,
perché, se lei non fosse
Arnaut non si sarebbe
tanto impegnato.
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