ELISA

di Alessandra Mattirolo


La redenzione è possibile? Chi si è macchiato di un crimine spaventoso può integrare il suo lato oscuro in una personalità capace di una vita alla luce del sole?

L’ultimo film di Leonardo Di Costanzo, vincitore del Premio Signis alla 82ª Mostra del Cinema di Venezia, narra la storia di Elisa Zanetti (Barbara Ronchi), colpevole di aver ucciso la sorella maggiore e dato fuoco al suo cadavere.

Elisa è condannata ad una pena di vent’anni e il film inizia dopo il suo decimo anno di reclusione. Di Costanzo ama ambientare i suoi film nelle prigioni. Se il suo precedente lavoro, Ariaferma, si concentrava soprattutto sui rapporti tra carcerati e carcerieri in una vecchia struttura logora, qui ci troviamo in un carcere modello nelle montagne svizzere, senza ferraglie, portoni e cancelli ma con deliziose casette di legno immerse in una natura alpina e silenziosa più adatta ad un lavoro di introspezione che ad una punizione.

Elisa viene da una famiglia borghese. E’una giovane donna bella e intelligente. Il suo gesto appare incomprensibile persino a sé stessa, tanto da averlo cancellato dalla memoria. La sua riabilitazione, forse proprio a causa del totale oblio, sembra procedere con un certo successo fino all’arrivo, nella struttura, di un criminologo, il dr Alaoui (Roschdy Zem).

Studioso dei casi più difficili e apparentemente incomprensibili, Alaoui ingaggia Elisa in un serie di colloqui per aiutarla a ricordare e di conseguenza ad assumere dentro di sé la responsabilità di ciò che ha fatto per poter dare corso a una vera e propria riabilitazione. I loro incontri, simili a sedute psicanalitiche, si trasformano in tempeste silenziose, dove ogni parola è un sussurro di rivelazione, una mareggiata di dolore che, lentamente, scioglie l’amnesia. Elisa percorre i corridoi del suo tormento, restituendo frammenti di verità. In quella discesa dentro il proprio baratro intravede forse il primo passo verso una redenzione possibile.

Il padre di Elisa, interpretato da Diego Ribon , non è mai riuscito a rifiutare la figlia anche se gliene ha uccisa un’altra. Ricorda, in questo, il padre di Erika De Nardo che restò, ai tempi del famoso delitto di Novi Ligure, accanto alla figlia anche se aveva sterminato la sua intera famiglia. Un miracolo dell’amore? Una incapacità, forse anche per senso di colpa, di odiare la propria figlia? Oppure una pietà che non rinuncia alla speranza e sfida il giudizio sociale unanime di condanna.

Ed è a questo proposito che entra in scena (appena un paio di volte) Valeria Golino . Suo figlio è stato massacrato da una band di bulli. Ed è lei a sfidare Alaoui. Gli dice che ammira il suo coraggio ma che per il male, così efferato, non esiste redenzione né perdono. Un dilemma che la fotografia di Luca Bigazzi rende visibile attraverso l’ambiguità di luci rarefatte e ombre sospese come se la verità fosse perennemente in bilico.

A parte alcune confusioni nella scrittura della sceneggiatura, dove a volte si confondono scene immaginate con quelle realmente vissute, il film scritto da Bruno Oliviero e Daria Santella, piacerà  a chi ama l’introspezione e cerca nella “banalità del male”, una ragione perchè qualunque essa sia è per sé stessa umana. 

Non va dimenticato che il film è tratto da una vicenda realmente accaduta , quella del delitto compiuto nel 2014 da Stefania Albertani. Chi si appassionasse alla vicenda può cercare sul web una delle puntate di Storie Maledette di Franca Leosini.


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