VITA COL PADRE – TITO GOBBI, MIO PADRE, L’UOMO E L’ARTISTA

di Cecilia Gobbi


Quando ero bambina mi veniva chiesto spesso: “Com’è essere la figlia di Tito Gobbi? E lui che padre è?” ma per la difficoltà, e forse ancor più per il riserbo, di svelare sensazioni e sentimenti che custodivo nel mio intimo, non riuscivo a dire altro che: “E’ mio padre! … l’unico che conosco!”.

Oggi, nel quarantesimo della sua dipartita, sento il bisogno di rispondere a quella domanda raccontando la natura e la personalità dell’artista indiscusso, dell’uomo e del padre che ho avuto la fortuna di conoscere all’interno di un’unica identità coerente e inscindibile.

Tito Gobbi è stato un uomo buono, di animo aperto e generoso, amante della vita e appassionato della sua arte. Era legato ai valori familiari e nutriva affetti profondi e responsabili per i suoi cari ai quali, pur nel vortice di una carriera internazionale, non ha mai fatto mancare la vicinanza affettiva, il piacere di allegre riunioni e il conforto nel momento del bisogno. Dotato di un carattere gioviale partecipava spesso e volentieri alla vita mondana del mondo artistico, anche se per naturale inclinazione alla semplicità, in quella privata prediligeva la compagnia di vecchi amici e le serate conviviali in cui per la gioia degli ospiti si divertiva a esibire i suoi talenti di chef sperimentale e di travolgente imitatore. Nel “tempo libero” era costantemente occupato; spinto da un bisogno innato al fare, si impegnava con soddisfazione in una sorprendente gamma di attività manuali, dalle più banali come la riparazione di oggetti rotti, a quelle creative come la pittura, la scultura, la costruzione di mobili rustici e persino la progettazione di barbecue e coperture per la piscina.

La sua personalità poliedrica era animata da un’inesauribile curiosità di conoscenza che esprimeva nello studio continuo dei diversi settori artistici, abbinato al piacere di collezionarne i cimeli. Anche i viaggi erano un’occasione per esplorare culture diverse e riportare a casa oggetti di antiquariato, tessuti, pietre dure e souvenir esotici da condividere con la famiglia. Tra i ricordi dei viaggi resta memorabile quello di Johannesburg da dove preannunciò il suo ritorno con un laconico telegramma: “Arrivo con Figaro”. Inutilmente io e mia madre cercammo di indovinare chi fosse il misterioso accompagnatore ma dovemmo attendere l’arrivo del volo a Ciampino per assistere tra i lampi dei fotografi alla discesa di Tito Gobbi dalla scaletta dell’aereo con in braccio un cucciolo di leone, il tenerissimo regalo per la sua bambina! Figaro è poi rimasto a lungo al centro di scherzi orditi d’intesa tra mio padre e me ai danni degli ospiti che frequentavano la nostra casa. Erano scene esilaranti quelle delle nostre vittime di turno prese dal panico quando babbo (così lo chiamavo) con simulata nonchalance mi diceva: “Cecilia, vai a prendere il leone e portalo in salotto!”. Questo era mio padre, un padre attento, tenero e affettuoso, un complice spiritoso, un compagno di giochi divertente.

Tito Gobbi viveva con gioia e accumulava un prezioso bagaglio di esperienze e conoscenze che metteva al servizio dell’arte teatrale. Tra queste, la felice esperienza cinematografica che abbandonò dopo 26 film per dedicarsi interamente alla sua vera passione: l’opera. Dal cinema e dalle sue inquadrature ravvicinate trasse ed esportò in teatro una concezione innovativa della recitazione scenica, più realistica e convincente, basata sulla compenetrazione totale nel personaggio sia nel trucco, di cui diventò un maestro, che nell’espressione del viso, del corpo e della voce. La ricerca continua di credibilità scenica lo induceva a studiare approfonditamente la fonte letteraria dell’opera e il periodo storico per ricostruire e contestualizzare la storia del personaggio che progressivamente completava e arricchiva di dettagli immaginando quello che il libretto suggeriva ma non esplicitava. Usava le sue antenne di uomo di teatro per costruire ogni personaggio anche nell’aspetto fisico; con un approccio fisiognomico ne visualizzava il volto in modo che contribuisse a definirne il carattere e rivelarne la natura umana. Ne è un esempio emblematico un disegno del viso del barone Scarpia dominato da un naso aquilino che gli conferisce un aspetto “da avvoltoio”. Questo connotato caratterizzante gli era stato ispirato dalla casuale osservazione di uno sconosciuto durante un viaggio in treno, e lo aveva “rubato” all’ignaro passeggero per poi riprodurlo in sede di trucco incollando una protesi sul suo naso piccolo e regolare. Con analogo procedimento studiava la postura dei suoi personaggi tracciandone la linea, cosa che fece anche per Scarpia completandone coerentemente il carattere rapace e predatorio. Questo processo di conoscenza, funzionale alla compenetrazione totale nel personaggio, era uno dei segreti delle sue interpretazioni caratterizzate da un’azione scenica realistica e apparentemente spontanea: “I personaggi non conoscono lo sviluppo della trama” – diceva – “per cui i loro comportamenti e le loro reazioni devono nascere in quel momento”.  Un altro segreto fondamentale era nel suo uso della voce che, in perfetta sintonia con il dettato Verdiano della “parola scenica”, comunicava attraverso il fraseggio le sfumature psicologiche del personaggio.  Per questa caratteristica distintiva fu definito the acting voice, ovvero la voce che “fa teatro” non solo in palcoscenico ma anche nei dischi dove l’espressività è convogliata esclusivamente dal suono.

Questo lavoro di ricerca e studio gli era indispensabile: aveva bisogno di credere nella verità di un personaggio, nella sua dimensione umana e credibile per potersi calare in esso, prova ne è che ha sempre rifiutato due grandi ruoli perché non lo convincevano, pur essendo adatti alla sua voce e teatralità.  Per contro, nei personaggi di cui condivideva la visione e i sentimenti riconoscendosi umanamente in essi, ha raggiunto altissimi livelli di interpretazione.  Primo tra tutti il Doge Simon Boccanegra di cui è stato considerato il vero e proprio creatore. Di Simone ha incarnato i moti dell’anima nei due livelli psicologici, quello del politico visionario e quello del sentimento paterno, comunicando tutto lo spessore ideale e l’intensità emotiva del suo richiamo all’amore universale sublimato dalla musica di Verdi: “E vo gridando pace! E vo gridando amor!”.  Un ritratto insuperato in cui ha espresso la sua anima di uomo e di artista raggiungendo una vetta di immedesimazione tale che nel mio vissuto Simone e mio padre sono rimasti coincidenti e sovrapposti.

Tito Gobbi ha amato profondamente i suoi personaggi e con rara intelligenza teatrale ne ha rispettata la pienezza drammatica con la scelta lucida e coraggiosa di “salutarli” quando ha ritenuto di aver dato loro tutto quello che poteva e di non poter dare di più. A soli 45 anni ha detto addio con dispiacere a due celebri cavalli di battaglia: Il barbiere di Siviglia prima e Rigoletto poco dopo. Ha continuato ad andare in scena in altri ruoli e progressivamente si è impegnato con passione nell’insegnamento per trasmettere alle nuove generazioni di cantanti il patrimonio di conoscenze acquisite in circa 40 anni di carriera e la sua voglia instancabile di fare bene, fare meglio.  Tutto questo con la rara capacità di apprezzare quello che aveva ricevuto dalla vita. Concludo con le stesse frasi finali della sua autobiografia: “Ho amato appassionatamente la mia arte e ho goduto la vita. Ho amato lavorare con i giovani per trasmettere loro la mia lunga esperienza. Così ho voluto ringraziare il signore per il magnifico dono che mi ha fatto.”


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