QUANDO IL TEATRO ERA NECESSITÀ
di Pino Ammendola
Si era alla fine degli anni cinquanta, ancora lontani da quel boom che avrebbe profondamente modificato, nel bene e nel male, il nostro viver sociale. C’eravamo appena trasferiti in una casa tutta nostra, fatto estremamente eccitante per me e mio fratello, salvo l’oscura incombenza di qualcosa di connesso a quella nuova abitazione, di cui sentivamo parlare di nascosto i nostri genitori: il ‘mutuo’! Una sorta di oscura punizione divina che probabilmente colpiva coloro che avevano una casa propria e che per noi si traduceva in una serie lunghissima di cose negate: giocattoli costosi, capricci estemporanei, divertimenti non previsti, insomma tutto quello che non confaceva alle reali necessità della vita di una famiglia borghese di quel tempo. Non eravamo ricchi, ma non ci mancava di certo l’indispensabile, anzi i nostri genitori ci facevano notare costantemente che eravamo dei veri privilegiati, avevamo il frigorifero e addirittura il televisore, un sofisticato Dumont comprato nel ’56 per la esorbitante cifra di 160.000 lire! Nel nostro stabile eravamo i secondi a possederne uno, dopo l’ingegnere dell’ultimo piano, il costruttore del palazzo, che però a differenza della nostra famiglia non invitava mai nessuno dei condomini a godere di quella meraviglia tecnologica. Eravamo sicuramente dei bambini felici e la nostra famiglia godeva di un piccolo benessere prodotto da un’ostinata tendenza al risparmio e soprattutto da uno stile di vita sobrio, come allora usava e come il buon gusto comandava. La complessa gestione ‘economica’ del ménage familiare era affidata a mia madre, che con grande accortezza frazionava lo stipendio di mio padre in piccole trance che sarebbero servite alle varie esigenze mensili. All’uopo utilizzava una grossa cartella multitasche in pelle, dove in corrispondenza di ogni separatore, c’era un’etichetta adesiva con su scritto, con la sua bella e nitida grafia, la spesa a cui si riferiva l’accantonamento. Così fatto salvo il primo scomparto, dove campeggiava fosca e minacciosa la parola ‘mutuo’, venivano, ‘spesa quotidiana’, ‘bollette luce, acqua, gas’, ‘cameriera’ (in quegli anni anche le famiglie più modeste avevano una servetta), ‘vestiario’ e prima ancora di ‘divertimenti’ e ‘imprevisti’, veniva l’etichetta e il relativo comparto per il ‘teatro’. Mia madre accantonava mensilmente il denaro per andare a teatro! A ripensare oggi che per una famiglia italiana del ceto medio nel 1959 il teatro era un’esigenza paragonabile a quella della spesa quotidiana o delle bollette energetiche, ben distinta badate bene, dal mero divertimento, mette una grande tristezza. Andare a teatro era visto come un naturale nutrimento dello spirito, un’esigenza sì culturale ma assolutamente indispensabile. Credo che i miei genitori facessero dei sacrifici per ‘permettersi’ quei sabato sera a teatro e per quanto fosse l’unica occasione mondana che si concedessero, non lo consideravano affatto un lusso, o un semplice piacere, ma una necessaria occasione di crescita e arricchimento spirituale! Da quel tempo è passata una vita, ma mi piace ricordarli così, teneramente tirati a lucido per uno spettacolo di Visconti, di Squarzina o di Strehler… mio padre con il suo pezzo forte, un abito grigio antracite che si era fatto fare per il cavalierato del nonno e mia madre con un semplicissimo tailleur nero di velluto francese, fatto sì da una sartina di quartiere, ma che la rendeva agli occhi di mio padre più bella delle attrici sul palco.
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