PIERPAOLO PASOLINI

di Andrea Simi


Tutti conoscono Pier Paolo Pasolini come cineasta, molti come narratore, molti meno come poeta. Eppure ha pubblicato quattro raccolte di versi, una delle quali in lingua friulana. Due di queste suscitarono scalpore e reazioni contrastanti nel mondo letterario e della critica: la prima è “Le ceneri di Gramsci” del 1957; la seconda “Poesia in forma di rosa” del 1964, nella quale è germogliato l’embrione della critica alla società consumista, massificata, insieme con quello, risalente, della nostalgia per il mondo contadino d’antan. Pasolini è tormentato dalla sua omosessualità, mai accettata sino in fondo, e dal tragico rapporto con una madre del cui amore si sente schiavo.
L’ambigua, spesso feroce attrazione, venata di crudeltà sadomasochistica, verso i ragazzi di vita del suo primo romanzo lo porta a vivere – neanche troppo nascostamente – una vita violenta analoga a quella di Tommaso Puzzilli, protagonista dell’omonimo romanzo successivo. Ma questa vita violenta Pasolini la visse con la coscienza e il rovello di un intellettuale impegnato. L’epilogo fu una morte altrettanto violenta, le cui circostanze e i cui moventi non sono mai stati chiariti del tutto.
Una volta ho definito Pasolini “dolente cantore delle periferie urbane”. Lo è stato, ma è stato certamente molto di più. Ha costantemente dato scandalo, incidendo sulle coscienze e sul costume, e in molte occasioni e andato – con fermezza – contro corrente.
Dopo il primo processo per atti osceni il PCI, di cui era stato assiduo militante dall’immediato dopoguerra, lo espulse per indegnità (ma, forse, anche per scomodità); nei giorni ruggenti della primavera del 1968, dopo gli scontri di Valle Giulia tra Polizia e studenti, ebbe il coraggio di scrivere “Vi odio cari studenti”, prendendo le parti dei proletari in divisa. Per tacere degli editoriali raccolti negli “Scritti corsari” del 1975, immediatamente prima della sua morte a 53 anni.
Ne leggeremo due poesie: un brano, tratto da “Il pianto della scavatrice” (Le ceneri di Gramsci) e la “Supplica a mia madre” da “Poesia in forma di rosa”, dove fruga senza pietà nel segreto della sua anima. È appena il caso di ricordare che Pasolini volle proprio sua madre nel ruolo della Madonna ai piedi della croce ne “Il Vangelo secondo Matteo” e che, nello scandaloso episodio di ROGOPAG intitolato “La ricotta” il protagonista, un poveraccio, una comparsa di nome Stracci che raffigura in un set cinematografico uno dei due ladroni crocefissi, muore veramente sulla croce, ma per una indigestione di ricotta della quale si era abboffato. C’è da chiedersi, al di là del grottesco di questa storia, quanto Pasolini si immedesimasse non tanto nel Cristo, ma in un qualunque povero cristo crocefisso.

Da Il Pianto della scavatrice

Ero al centro del mondo, in quel mondo

di borgate tristi, beduine,

di gialle praterie sfregate

da un vento sempre senza pace,

venisse dal caldo mare di Fiumicino,

o dall’agro, dove si perdeva

la città fra i tuguri; in quel mondo

che poteva soltanto dominare,

quadrato spettro giallognolo

nella giallognola foschia,

bucato da mille file uguali

di finestre sbarrate, il Penitenziario

tra vecchi campi e sopiti casali.

Le cartacce e la polvere che cieco

il venticello trascinava qua e là,

le povere voci senza eco

di donnette venute dai monti

Sabini, dall’Adriatico, e qua

accampate, ormai con torme

di deperiti e duri ragazzini

stridenti nelle canottiere a pezzi,

nei grigi, bruciati calzoncini,

i soli africani, le piogge agitate

che rendevano torrenti di fango

le strade, gli autobus ai capolinea

affondati nel loro angolo

tra un’ultima striscia d’erba bianca

e qualche acido, ardente immondezzaio…

era il centro del mondo, com’era

al centro della storia il mio amore

per esso: e in questa

maturità che per essere nascente

era ancora amore, tutto era

per divenire chiaro – era,

chiaro! Quel borgo nudo al vento,

non romano, non meridionale,

non operaio, era la vita

nella sua luce più attuale:

vita, e luce della vita, piena

nel caos non ancora proletario,

come la vuole il rozzo giornale

della cellula, l’ultimo

sventolio del rotocalco: osso

dell’esistenza quotidiana,

pura, per essere fin troppo

prossima, assoluta per essere

fin troppo miseramente umana.


Supplica a mia madre

È difficile dire con parole di figlio

ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.

Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,

ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore.

Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere:

è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.

Sei insostituibile. Per questo è dannata

alla solitudine la vita che mi hai data.

E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame

d’amore, dell’amore di corpi senza anima.

Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu

sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:

ho passato l’infanzia schiavo di questo senso

alto, irrimediabile, di un impegno immenso.

Era l’unico modo per sentire la vita,

l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita.

Sopravviviamo: ed è la confusione

di una vita rinata fuori dalla ragione.

Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.

Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…


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