MARY QUANT, LA RIVOLUZIONE IN UNA MINIGONNA
di Antonella Reda e Susanna Rotunno
Londra, primi anni 60. Il cambiamento è nell’aria. Mentre i Beatles lanciano la moda dei capelli con la frangetta, le scarpe a punta, l’abito alla “coreana” e cantano facendo andare in delirio milioni di fan al ritmo di “She loves you yeah yeah yeah”, mentre le giovani si tolgono il bikini e nelle spiagge trionfa il monokini, all’epoca dello swinging London, una giovane e coraggiosa ragazza di nome Mary Quant irrompe sulla scena e inventa la minigonna. È il 6 marzo 1964 ed è subito storia.
Nata in un sobborgo di Londra l’11 febbraio 1930, figlia di due professori inglesi della London University, che per lei sognavano un tranquillo futuro da insegnante, a soli 17 anni Mary lascia la famiglia e inizia una vita da bohemien. La “ragazzina che non voleva crescere” si veste in libertà e in modo stravagante. Nel 1955 si trasferisce a Chelsea, il quartiere londinese che sta diventando punto di incontro di artisti e intellettuali. A soli 25 anni, insieme all’aristocratico e futuro marito, Plunket Greene e al fotografo Archie McNire, acquista una palazzina a King’s Road dove nascono un ristorante e un Bazaar. Abbandoniamo l’idea di un classico negozio ed entriamo in uno spazio libero, colorato, caratterizzato da un marchio, una grande margherita colorata che molti di noi forse ricordano. È lei la prima a rivolgersi ai ragazzi, offrendo loro la possibilità di passare piacevolmente del tempo, in un ambiente allegro e informale, a tempo di musica. Girare tra gli scaffali senza più essere disturbati dai commessi dove si trova di tutto maglioni, cravatte, cappelli, gioielli, “scovati” in giro da Mary. Consapevole di cogliere i gusti del pubblico giovanile, sceglie di frequentare dei corsi per imparare a cucire e a come personalizzare i modelli. In questa autonomia creativa, che si esprime nella apertura di un secondo Bazaar, nasce la Stilista.
Il suo è un gesto semplice ma rivoluzionario nato per caso: il primo orlo fu infatti accorciato da Mary dopo una corsa verso un autobus che rischiava di perdere, impacciata dalla gonna troppo lunga. La formula è vincente. “Sforbiciare una gonna” per lasciare scoperte le gambe, in un gesto che esprime libertà ed emancipazione per tutte. E i giovani la incoronano Regina. È un attimo: anche se è lontano il tempo dei social e di internet, un formidabile passaparola, complici stampa e televisione, esalta questa nuova avventura. Nelle vetrine esplosive e pop della nuova Boutique sempre a King’s Road, insieme alla minigonna arrivano stivali alti sopra il ginocchio, top lavorati all’uncinetto, calze colorate, impermeabili luccicanti. Ogni abito e ogni gesto non alludono mai erotismo, al contrario esaltano una femminilità quasi impalpabile, eterea, lineare. Così come era lineare il caschetto schematico creato per Mary Quant dal leggendario parrucchiere Vidal Sassoon. L’ideale perfetto di questo stile geometrico ed essenziale è incarnato da una 17enne, che lavora in un negozio di coiffeur, dalle forme androgine e con i capelli corti, soprannominata per la sua magrezza Twiggy, Grissino.
Diventerà poi una top model ante litteram, ribelle elegantissima, con i suoi occhi da cerbiatta e una scoordinata postura, la modella inglese più amata negli anni ‘60 e‘70. Con il suo carisma ha portato il messaggio della minigonna in tutto il mondo. Un messaggio che si trasforma in un’onda innovatrice cavalcata dai giovani, la nuova voce che prima non esisteva. La moda diventa così il segno attraverso il quale riconoscersi. Come novelli Sanculotte, i rivoluzionari francesi che nel 1791 portavano i pantaloni lunghi e non quelli corti indossati dalla nobiltà, così i ragazzi degli anni ‘60 smontano le divise di ogni istituzione, di ogni guerra, si appropriano del proprio corpo per crescere lontani dal modello familiare.
E così entriamo in un altro forte impulso, suggerito da quegli abiti che rappresentano una pagina importante nella storia del costume. La moda, che vive da sempre un complesso di inferiorità rispetto all’arte, diventa ispiratrice per gli artisti della Pop Art. Nel 1965 Jim Dine realizza un’opera che rende protagonista un elemento di consumo della vita quotidiana e lo fa diventare altro. L’abito della stilista è lì rappresentato in un cartamodello posizionato su un pannello, monumento alla costruzione di una cosa, reinventata come logo. Così come Mary Quant fa diventare manifesto la gonna e l’abito corto: è lo stravolgimento della vocazione di un oggetto con l’intenzione di smontare un’idea, per crescere.
Colonna sonora di questa epoca sono gli LP e i 45 giri posizionati sugli scaffali e sui banconi degli store musicali, nella Quesnay. Armonie beat di gruppi come The Troggs, The Shadows, The Animals. Ma in quell’estate la musica cambia ancora. L’oggetto del desiderio di migliaia dei “ragazzi nel segno di Mary” diventa Revolver l’album dei Beatles già culto non appena “atterrato”. Due meteore che stravolgono il mondo della musica e della moda riconosciute con l’onorificenza di Cavaliere della Corona: I Beatles, poco più che ventenni, incontrano la Regina che li insignisce membri dell’ordine dell’impero Britannico e Baronetti. È il 25 ottobre 1965. Un anno dopo, per il suo straordinario contributo al settore della moda anche Mary Quant viene riconosciuta Ufficiale dell’ordine dell’Impero Britannico, occasione per confermare che il suo stile anticonformista infrange anche le rigorose e “grigie” regole imposte dal cerimoniale. Mary si presenta davanti a “sua Maestà” a Buckingham Palace in abito corto e chiaro, tacchi bassi e calze spesse.
Non tutti gli storici della moda sono concordi sulla paternità della minigonna, rivendicata più volte dallo stilista francese André Courèges. Ma se sull’idea creativa ci possono essere dubbi, è certo che l’esplosione di quel fenomeno applaudito e condiviso da tanti i giovani non è nato in un atelier parigino, frequentato dalla ricca classe borghese, ma nel confusionario e allegro “antro di Alì Babà” che era il Bazaar londinese di Mery.
La sua recente scomparsa all’età di 93 anni ha suscitato una nuova onda, questa volta di commozione. In un mondo dove ci si veste per essere guardati e dove conta sempre di più l’apparire, non è solo l’eterna giovane stilista che se ne è andata ma anche la memoria di un tempo dove ci vestivamo non per vanità ma per dire con coraggio qualcosa tutti insieme: il mondo creato dagli adulti non ci piace e crediamo sia possibile cambiarlo.
“Non avevo il tempo di aspettare la liberazione delle donne e cosi ho fatto da sola” … Mary Quant
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