LA SOLITUDINE DEL DOPPIO

di Nicoletta Calabrese


“Ognuno combatte la solitudine come può”. Pietro Ponte lo fa circondandosi di otto magnifiche presenze. Ma esistono davvero? Pietro (Elio Germano), un pasticciere quasi trentenne, decide di trasferirsi a Roma dalla Sicilia per inseguire il suo sogno di diventare attore. Ad aspettarlo nella capitale c’è la cugina Maria (Paola Minaccioni), iniziale coabitante e, per lui, punto di riferimento molesto. Il protagonista prende la decisione perciò di emanciparsi e di trovare una propria libertà andando a vivere in una vecchia casa. Rimarrà l’unico inquilino per poco poiché inizierà ben presto la convivenza con un’insolita compagnia teatrale costituita da attori d’epoca, morti in quella stessa casa durante la Seconda Guerra Mondiale. Pietro accetterà queste presenze solo dopo una violenta rottura con Massimo, aiuto-regista di successo, per il quale il protagonista prova un amore ossessivo e morboso. Comincia così un rapporto d’amicizia alla ricerca di un passato per la compagnia e di un futuro per Pietro.

Ancora una volta il regista, Ferzan Ozpetek, propone un lungometraggio la cui chiave continua ad essere una forte coralità, tratto che possiamo ritrovare anche nel primo grande successo del regista, “Le fate ignoranti” e in un altro suo celebre film “Mine Vaganti”. Si tratta di una coralità variegata e mai anonima caratterizzata da personaggi ben definiti e funzionali alla crescita del protagonista. All’interno delle opere del regista turco, il protagonista persegue un obiettivo o affronta i propri ostacoli sempre a seguito di un incontro con un altro sguardo grazie al quale il personaggio cambia inevitabilmente.

Questo affollarsi di persone “va in scena” seduto attorno a grandi tavolate allestite nel minimo dettaglio affinché lo spettacolo possa iniziare. Mangiare è per il regista puro piacere, un attimo di sospensione di cui lo spettatore deve godere. In “Magnifica Presenza”, il cibo è oggetto di una cura minuziosa da parte di Pietro il quale sfoga le sue manie nella precisa disposizione delle portate sulla tavola, pratica sottolineata dalla scelta registica di reiterare soggettive del protagonista sul pasto. Un rapporto stretto con il passato è un altro espediente che ricorre nella filmografia del regista di cui troviamo massima espressione nella “Finestra di fronte”. Questa dimensione irrompe nel presente in maniera concreta e vengono così sviluppate due linee temporali che non sono mai parallele ma si intrecciano modificandosi reciprocamente andando a limare il confine tra reale e fantastico. In tutta la sua filmografia troviamo visioni, ricordi tattili che spingono la pellicola in una dimensione fantastica e surreale senza sfociare però in situazioni che si distaccano eccessivamente dalla realtà. “Finzione, finzione…ma che finzione, realtà!”

Possiamo utilizzare proprio questa citazione, ripresa dal film ma ancor prima dai “Sei personaggi in cerca d’autore” di Pirandello, per rispondere alla questione iniziale. Esistono davvero queste presenze? Nel caso del cinema di Ozpetek non è necessario porsi questa domanda. Il segreto della sua filmografia è proprio questo, il fatto che non sia mai netto il confine tra vero e immaginario lascia lo spettatore sospeso in un limbo in cui non esistono più il reale e il fittizio ma solamente ciò a cui ognuno di noi sceglie di credere. La scelta del regista di riportare all’interno del lungometraggio una citazione da uno dei drammi più celebri del drammaturgo non è casuale. Pirandello è il maestro del doppio e nelle opere di Ozpetek la prospettiva non è mai una sola.


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