La retrospettiva di Mark Rothko a Parigi e la mostra dei Vedutisti veneti a Milano
di Irene Niosi
Col Natale alle porte, l’occasione è buona per segnalare due mostre, la prima dal titolo: “Canaletto, Guardi, Marieschi – Vedutisti Veneziani del Settecento” che si è aperta il 16 novembre a Milano, nella sede della storica galleria Salamon, la seconda – che vale un viaggio a Parigi – presso la Fondazione Louis Vuitton, è la tanto attesa retrospettiva dedicata a Mark RothKo. Partiamo dalla mostra parigina che ripercorre cronologicamente sin dagli esordi figurativi l’intera produzione del grande artista russo, cresciuto e formatosi negli Stati Uniti (Daugavpils, Lettonia, 1903 – New York, 1970) attraverso una selezione di centoquindici opere provenienti da collezioni internazionali sia private che pubbliche.
Le sue prime opere risentono dell’influenza di Max Weber suo maestro, e si distinguono per lo stile intensamente lirico , come i paesaggi urbani, che aprono l’esposizione parigina, dove è presente la serie Subway, in cui sviluppa il tema della solitudine dell’uomo nella società contemporanea con immagini che appaiono, come lui stesso ricorda: “un tableau vivant dell’incomunicabilità umana”, le figure sono appena accennate, senza consistenza, e preannunciano la sua futura sensibilità astratta. Dopo questa fase iniziale e almeno fino al 1946, attinge alle fonti defigurate del Surrealismo europeo come la maggior parte degli artisti che aderiranno all’espressionismo astratto. Si dedica allo studio della filosofia, legge “la Nascita della tragedia di Nietzsche, un testo che risulta per lui molto formativo, si accosta alle teorie freudiane e all’inconscio collettivo di Jung, a tutte quelle poetiche che rimandavano all’arte primitiva. Le immagini archetipiche sono per lui una rappresentazione della barbarie e della violenza, dell’aggressione bellica e della tragicità, da cui la nostalgia verso i miti arcaici e verso un mondo metafisico, convinto che la forza trasfigurante dell’arte sia l’unico mezzo per sopportare la nostra esistenza atroce e assurda. Dopo la prima personale del 1945 nella galleria di Peggy Guggenheim Art of this Century, abbandona le fluttuanti forme biomorfiche del Surrealismo divenendo uno degli esponenti di spicco dell’espressionismo astratto. Gli anni Cinquanta consacrano la sua maturazione artistica con tanti capolavori, come i famosi Multiforms che esegue tra il 1949 e il 1956 che sono per lui: “l’espressione semplice del pensiero complesso”, grandi tele caratterizzate da sottili strati di colore velato da macchie di colore senza forma che si compenetrano. Rothko concentra l’attenzione su superfici sfumate dai colori cupi o brillanti, luminosi o atmosferici e lavora su opere di grande formato perché desidera suscitare, in chi osserva, la suggestione di essere all’interno del dipinto. L’aspetto monumentale della grande dimensione non è l’unico elemento a dominare, a prevalere nella composizione è soprattutto la mancanza di un punto focale centrale. Nel 1953 inizia a lavorare a una serie di grandi tele, le Seagram Murals, commissionate per il famoso ristorante Four Seasons a Manhattan la cui sede si trovava nell’omonimo e bellissimo palazzo progettato da Mies Van De Rohe, tele che non consegnò mai perché non ritenne il luogo adatto alle sue opere, troppo spirituali per un contesto da lui definito “un posto dove i bastardi più ricchi di New York verranno a nutrirsi e mettersi in mostra” e così finirono in un deposito, finché nel 1969 parte di esse vennero donate dall’artista alla Tate Modern di Londra che a sua volta ha ceduto in prestito nove esemplari alla Fondazione Vuitton. In Europa la sua arte verrà conosciuta grazie alla partecipazione alla Biennale di Venezia del 1958. Sospese in una dimensione atemporale e contemplativa grazie alla magistrale stesura del colore, le sue opere creano uno stretto rapporto con l’interiorità di ciascuno di noi e sono paragonabili alla musica che è una entità viva e vibra. “La mia arte non è astratta” afferma Rothko “perché vive e respira”.
Parigi – Fondazione Louis Vuitton – 18 ottobre 2023 – 2 aprile 2024
Canaletto, Guardi, Marieschi – Vedutisti Veneziani del Settecento
A Milano la storica galleria Salamon propone una raffinata mostra dedicata ai pittori di veduta veneziani e impreziosita da alcuni capolavori dei più celebri maestri di questo genere. Il Vedutismo nasce in Italia negli ultimi decenni del Seicento, sulla scorta dei progressi nel campo della scienza ottica tra XVI e XVII secolo – grazie alla diffusione capillare anche nelle botteghe d’arte dello strumento della camera ottica- il cui merito va all’olandese Caspar van Wittel che, trasferitosi a Roma, cominciò ad illustrare sulla tela i più noti panorami della città eterna. Le sue opere suscitarono profonda impressione nel giovane pittore veneziano Giovanni Antonio Canal, detto il Canaletto, massimo esponente del vedutismo e fra i maggiori artisti europei del Settecento che iniziò la sua carriera artistica proprio a Roma, a seguito del padre Bernardo Canal, attivo quale pittore di scenografie per i teatri dell’Urbe. Tra le opere esposte spicca la “Veduta del foro romano con la Basilica di Massenzio e la chiesa di Santa Francesca Romana” prova della maturità del pittore, intrisa di quell’incipiente sentimento di ammirazione per i monumenti antichi, che, soprattutto a Roma, rappresentò l’incipit della temperie intellettuale neoclassica.
A Venezia grande rivale del Canaletto fu Michele Marieschi, anche lui passato, attorno ai venticinque anni, dall’attività di scenografo alla pittura su tela: di Marieschi viene presentato un notevole dipinto “Piazza San Marco verso la basilica e il campanile”, commissionato all’artista nel 1738 da Henry Howard IV, duca di Carlisle. Si tratta di un’opera che ben rappresenta l’intonazione pittoresca dei soggetti di questo maestro, condotti non tanto all’esattezza della visione nei dettagli, quanto ad una riflessione sulla mutevolezza della luce, riflessione che conferisce a questa veduta un’inedita indole ‘impressionista’. Molto influenzato dalla maniera di Marieschi appare Francesco Guardi, il pittore più rappresentato nella mostra con ben sei dipinti: si parte dalla grande tela con Il bacino di San Marco verso San Giorgio Maggiore, capolavoro assoluto della rassegna della galleria Salamon e indiscutibilmente la prova più importante della fase giovanile del maestro: vi si scorge una luminosità e un’intonazione ancora canalettiana e una fattura meditata che sottintende il lungo studio della composizione. Guardi illustra il ritmo compassato della vita veneziana, laddove pure l’affollarsi delle gondole in primo piano non pare scalfire la calma di un mare fermo e trasparente, fedele alleato e testimone della gloria della Serenissima. Le stesse caratteristiche formali le riscontriamo in un’opera più tarda di qualche anno “Il Ponte di Rialto con il Palazzo dei Camerlenghi”, testimonianza di un taglio prospettico più volte reiterato dal pittore, scelto per evidenziare la mole squadrata del palazzo e, antistante, l’ampio e popolare Campo dell’Erbaria. Assai diversa la luce che disvela i panorami di due paesaggi di fantasia (detti ‘capricci’) e di due preziose vedute veneziane con Il Canal Grande presso il Campo della Carità e Il Campo Santi Giovanni e Paolo: qui ci troviamo al termine della carriera di Guardi e la stesura del colore si mostra più veloce e compendiaria. Le figure dei barcaioli, dei pescatori e dei passanti si sfaldano sotto i colpi del pennello e perdono quella consistenza di verità storica che assumevano invece nelle vedute di Canaletto. Guardi in altri termini, illustrando idilli marcatamente illusori, si propone come il cantore del tramonto di Venezia e la sua morte del resto anticiperà di soli quattro anni la fine della Repubblica.
Uno degli aspetti più interessanti di questa rassegna è la presenza in mostra di opere di due autori delle generazioni successive rispetto a quella dei grandi maestri: Francesco Tironi e Giovanni Migliara. Il primo, interprete all’unisono dei modi di Canaletto e Guardi, si segnala per un’interpretazione fortemente sintetica dei soggetti descritti, in linea col gusto di fine Settecento. Con Migliara invece siamo già nel XIX secolo, e la sua veduta di Piazza San Marco verso la Piazzetta e il Molo, lasciata ad abbozzo nella parte sinistra, testimonia del gusto accademico di cui Migliara fu uno dei più validi portavoce del suo tempo. L’uno e l’altro autore ben rappresentano la continuità della fortuna del Vedutismo a Venezia e più in generale nell’Italia settentrionale: fortuna attestata del resto anche da molti altri maestri che, al pari di Tironi e Migliara, meriterebbero maggiore attenzione da parte degli studiosi.
Galleria Salamon, Via San Damiano, 2 – I° piano – 16 novembre 2023 – 31 gennaio 2024
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