INTERVISTA A GEGÈ TELESFORO
di Francesco Acampora
Gegè Telesforo, foggiano e figlioccio di Renzo Arbore, con cui continua a proporre musica in tv a tarda notte, ha appena fatto uscire il suo nuovo album, “BIG MAMA LEGACY”, già in testa alle classifiche specializzate di jazz.
Gegè, il nuovo album “Big Mama Legacy” è, se non sbaglio, il quindicesimo della tua carriera…
Effettivamente, se penso anche alla colonna sonora del film animato “Opopomoz , dove cantava un mio brano Dee Dee Bridgewater, siamo proprio arrivati a 15.
Tu hai citato Dee Dee Bridgewater che è solo una dei molti grandi artisti con cui hai collaborato in questi decenni, soprattutto per la musica jazz (da sempre il tuo grande amore), quali gli altri più importanti per la tua carriera?
Prima di tutto vorrei nominare Ben Sidran, che mi chiamò in America a collaborare alla sua neonata etichetta Gojazz records. Con lui ho avuto la possibilità di fare concerti bellissimi ovunque. In Giappone, in Germania, negli Stati Uniti dove il jazz l’avevano inventato… Ho avuto l’onore di fare un’intera tournée in Giappone con Clyde Stubblefield, il batterista funky originale della band di James Brown. Ho frequentato per qualche settimana il Paisley Park di Prince, dove ho lavorato con tutto l’entourage potendo usufruire di quell’incredibile studio di registrazione per registrare un album chiamato “The mother tongue”. Ma poi anche con i migliori musicisti jazz italiani, con i quali sono cresciuto e con i quali trascorrevamo bellissime giornate a fare musica: Rita Marcotulli, Roberto Gatto, Danilo Rea. Sono fiero di aver avuto l’intuito di cercare il talento tra i più giovani. Per suonare il repertorio registrato per la Gojazz di Sidran ho messo su una band con Gatto, Rea, Enzo Pietropaoli. Avevamo tutti una trentina d’anni, e chiamai per i cori due giovanissime e bravissime cantanti, che oggi rappresentano l’eccellenza della vocalità italica, Tosca e Giorgia.
Scusa se è poco!
Volendo poi, con “Big Mama Legacy”, registrare un album che fosse una sorta di tributo al jazz (che ascoltavo da ragazzino a casa con i miei genitori e mia sorella), al blues, al groove e al R&b, ma che avesse un suono molto contemporaneo, ho cercato giovani musicisti dai 24 ai 28 anni.
Hai citato la tua gioventù. Tu sei veramente cresciuto a latte e jazz…
Assolutamente! Casa nostra non era una casa normale dove si ascoltavano e si conoscevano i cantanti italiani di quei tempi. A casa nostra si ascoltavano Ella Fitzgerald, Louis Armstrong, Dizzy Gillespie, quindi mi venne naturale memorizzare non solo i temi, ma anche gli assoli dei vari solisti.
Che sono quelli che tu hai utilizzato e a volte replicato cantando nella modalità “scat”…
Certamente, e per me è stato fonte di grande orgoglio venire a sapere che alcuni ragazzi nei conservatori hanno fatto tesi di laurea sul mio “scat”.
Fonte d’orgoglio, ma anche testimonianza che molti anni sono passati. Ma veniamo al nuovo progetto. Diciamo innanzitutto che il Big Mama è stato un locale molto importante a Roma per alcuni decenni che era conosciuto col sottotitolo de “la casa del blues”. Quindi “Big Mama legacy” rappresenta l’eredità di questa realtà?
Il Big Mama era un posto veramente speciale. Era il posto dove si andava. Non era il solito jazz club e nemmeno solo un club di blues. Lì ho visto dei concerti incredibili di jazz, di funk, di fusion, di musica contemporanea di allora. Ho visto sul palco un giovanissimo Alex Britti che accompagnava il maestro del blues italiano Roberto Ciotti; ho visto Giorgia che a 16 anni cantava col gruppo del padre, “Io vorrei la pelle nera”, una jam session con Kenny Garrett e altri musicisti della band di Miles Davis. Insomma, un posto speciale, di aggregazione. Ci si trovava lì, e sapevi che avresti incontrato amici e appassionati che la pensavano come te, coi quali parlavi di musica ma anche d’altro. Con persone sulla tua stessa lunghezza d’onda. Questo credo che manchi un po’ alle nuove generazioni. Oggi mi sembra che i ragazzi preferiscano vedere la musica sul telefonino piuttosto che andare ai concerti. I nostri concerti sono frequentati da un pubblico che ha la nostra età. Anche quando vai a suonare nelle città dove ci sono i Conservatori o le Scuole di Musica, la mattina vai a fare la masterclass, poi la sera ne vedi due o tre al concerto. Quindi c’è proprio un modo di affrontare la musica completamente diverso. Poi però ci sono le eccezioni. Sono quei ragazzi che ai concerti li trovi sempre, e alla fine fanno la differenza.
Hai voluto fare un tributo al Big Mama, ma chi pensasse di trovare un album di blues classico, rimarrebbe molto deluso. C’è di tutto ma non il blues classico…
Non ho voluto dormire sugli allori. Potevo fare un album di cover di grandi classici, ben suonati e cantati e invece no. Mi sono voluto impegnare e scrivere un gruppo di brani nuovi pensando, come sempre faccio, a diversi stili musicali, a spezie ritmiche diverse, e divertendomi a passare dal funk, al groove, al jazz, all’afrobeat. E poi Big Mama significa questo, la “Grande Madre” che altro non è che la Madre Africa. Il nostro è comunque un disco suonato “veramente” dalla prima all’ultima nota. Oggi si registra con il computer, ma noi gli strumenti li abbiamo suonati veramente. E questo per me fa la differenza. Noi la definiamo la “new old school”.
Vorrei parlare dei giovani musicisti del tuo album che sei andato a scovare in giro per l’Italia in tempi anche molto anticipati…
Proprio così. Cominciamo da Vittorio Solimene, l’organista-pianista. L’ho conosciuto a 16 anni perché partecipò a una masterclass organizzata dalla St. Louis Jazz School di Roma che selezionò una serie di studenti meritevoli per partecipare al corso, con concerto a seguire. Quindi questi ragazzi vennero a casa mia a fare le prove e a preparare parte del mio repertorio, che poi avremmo suonato dal vivo. Mi colpì molto questo ragazzetto, che aveva un talento precoce per i suoi anni ed un approccio alla musica già da professionista: disciplina, serietà, attenzione, una cura particolare. E dopo il concerto gli dissi che ci saremmo rivisti per fare musica assieme. E così è stato. Oggi fa parte della mia band, ma è anche un formidabile pianista contemporaneo che realizza i suoi dischi. I due fratelli Cutello, Matteo il trombettista e Giovanni il sassofonista, li ho conosciuti addirittura che avevano 13 anni, perchè parteciparono ad un’altra masterclass che tenni a Messina nel 2013. C’erano questi due ragazzini in maglietta e pantaloncini e io mi chiedevo “ma che ci fanno questi qui?”. Ma poi, la sera stessa, li ho sentiti suonare in una jam session in un club e facevano paura tanto erano bravi. Sembravano davvero la reincarnazione sicula di Dizzy Gillespie e Charlie Parker. Poi il papà, un ingegnere pazzo di jazz, li mandò a studiare negli USA, al Berkeley College of Music, dove hanno superato tutti gli esami e le audizioni , ottenendo dal College il “full tuition”, ovvero una borsa di studio e pertanto le rette (che sono di 47.000 dollari a testa all’anno) sono state completamente a carico del College. Stessa cosa che accadde, per esempio, a una star come Esmeralda Spalding. Sono rientrati in Italia un paio d’anni fa, laureati col massimo dei voti, e io li ho ripescati subito. Con Michele Santoleri, il batterista, e Christian Mascetta, il chitarrista, è andata più o meno nella stessa maniera, anche se loro avevano già diciotto o diciannove anni. In un concorso musicale a Rovigo vinsero il primo premio. E io, che ero Presidente di giuria, andai a congratularmi con loro e a dargli il mio biglietto da visita, invitandoli a contattarmi. E Santoleri, guardandomi in faccia, disse “ma lei chi è?”. Non mi aveva riconosciuto e non ho potuto fare a meno di amarlo subito.
Mi sbaglio o tu fai i dischi soprattutto per poterli suonare dal vivo?
Scrivevo i brani, alcuni col mio chitarrista, Christian Mascetta, e contemporaneamente andavamo a fare i concerti. Quindi realizzavamo gli arrangiamenti secondo la resa che i brani avevano dal vivo. Un po’ il contrario di quello che si fa nel pop dove, di solito, si producono gli album e poi vengono proposti in tour così come sono. Invece noi, pur avendo registrato l’album, continuiamo a proporre i brani ogni sera con uno spirito diverso, visto che per noi regna l’improvvisazione. L’evoluzione continua. Mai fermarsi.
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