IL TEATRO E LA VITA NON SON LA STESSA COSA

di Cecilia Gobbi
“Il teatro e la vita non son la stessa cosa” dice Canio nei Pagliacci di Leoncavallo: una verità che oggi appare meno condivisa e sostenibile a causa dell’ansia di adeguamento al pensiero politically correct che spesso confonde e scambia i due piani con risultati sconfinanti nel paradosso
La spinta ad abbattere tutte le discriminazioni per dare vita a una società inclusiva e rispettosa delle specificità umane si sta spostando dalla vita reale al mondo del melodramma con l’urgenza di “correggere” le forme di espressione e rappresentazione della diversità presenti nei libretti e nell’identità etnica e fisica dei personaggi. Un’urgenza che, se estremizzata, si traduce in cancellation culture, ovvero nell’eliminazione dei fattori percepiti come discriminanti, con conseguente stravolgimento totale dei capolavori operistici. Questo approccio ideologico non è del tutto nuovo essendo in parte erede della censura ottocentesca che poneva il veto alle rappresentazioni sconvenienti rispetto alla morale dell’epoca e che solo a prezzo di modifiche radicali concedeva loro il nulla osta.
Nella seconda metà del secolo Verdi stesso fu costretto a una sofferta trattativa con la censura borbonica per ottenere l’approvazione de Il ballo in maschera. La censura ravvisava nella scena dell’omicidio di re Gustavo III di Svezia (realmente avvenuto a fine Settecento) una pericolosa istigazione contro il potere regio e fu rafforzata in questa convinzione dall’attentato di Felice Orsini a Napoleone III, capitato proprio in quei giorni. Verdi dovette spostare l’ambientazione dell’opera in un Paese geograficamente e culturalmente distante e sostituire il personaggio del re con una figura di minor peso, Riccardo, conte di Warwich e governatore di Boston. Per analoghe considerazioni fu contestato anche il tentato assassinio del Duca di Mantova previsto dal finale di Rigoletto, ma in questo caso Verdi, pur di non modificare la sua opera snaturandola, decise di ritirarla dal San Carlo di Napoli e la mandò in scena al Teatro Apollo di Roma.
La censura dell’epoca era fondata sui concetti di buon costume e di ordine pubblico in base ai quali emetteva i suoi giudizi per impedire che circolassero spettacoli diseducativi del popolo. Perciò vietava le rappresentazioni di opere imperniate su personaggi di discutibile censo e moralità come lo sventurato buffone Rigoletto e la scandalosa mantenuta di alto bordo, Violetta (Traviata) ma anche su storie di regicidi, o tentati tali, potenzialmente lesivi del Potere costituito. L’odierna spinta al rimaneggiamento delle opere nasce invece dalla rivendicazione della dignità e del rispetto dovuto a tutte le persone e, per promuoverne l’eguaglianza, si spinge fino a cancellare i fattori di diversità che le caratterizzano, modificando sia i testi che adottano espressioni razziste o misogine che la stessa identità dei personaggi. Si addomestica il linguaggio del librettista tagliando o riscrivendo frasi imbarazzanti quali “l’immondo sangue dei negri” (Il Ballo in Maschera), “un uomo nero è brutto” e “una donna fa poco e chiacchiera molto” (Il Flauto Magico) così come i riferimenti al “moro” Otello e alle sue “tempie oscure”. E sempre più spesso si interviene sui personaggi sopprimendone le caratteristiche distintive in base a una presunta lesione della loro dignità. Assistiamo quindi a spettacoli in cui Rigoletto non ha più la gobba e Otello, ma anche Aida, non è più di carnagione scura poiché l’uso del relativo costume imbottito e del trucco nero, detto blackface, è ritenuto offensivo.
Vediamo quindi il melodramma adeguarsi a questa sconcertante evoluzione che da molti non è neppure percepita come tale perché è talmente introiettata da diventare una forma mentis.
Il risultato però è straniante: privando i personaggi delle caratteristiche all’origine delle loro tragedie si finisce per dissociarsi dal senso stesso dell’opera. Così almeno sostengono i seguaci di una corrente di pensiero ma sull’argomento si scontrano opinioni talmente contrapposte che per alcune è indispensabile emendare le opere per eliminare tutti gli stereotipi di genere e di razza.
E infatti, già un paio di importanti teatri internazionali (l’Opéra di Parigi, il Metropolitan di New York) hanno addirittura istituito degli appositi “uffici delle diversità” per revisionare alcuni titoli e valutare l’eventuale rimozione dal repertorio di altri in base ai canoni stringenti del politicamente corretto. Tra i titoli in esame c’è anche Aida che, tacciata come opera colonialista e razzista, è stata spesso al centro di accese polemiche. Un esempio? Il soprano statunitense Angel Blue ha di recente rifiutato di cantare Traviata all’Arena di Verona per protesta contro “l’uso razzista del blackface” utilizzato nella Aida mandata in scena dalla Fondazione l’estate scorsa. Per contro la stessa protagonista dell’opera, Anna Netrebko, ha preso posizione in senso contrario dichiarando “Non sarò mai un’Aida bianca” e ha postato sui social media la foto del suo volto annerito alimentando un vivace dibattito tra opposte fazioni.
Questo scontro di opinioni sembra perdere di vista la funzione educativa del teatro e il valore del melodramma che è parte viva e vitale del nostro bagaglio culturale e patrimonio artistico.
L’autore di un’opera evidenzia le diversità proprio per metterle in luce, per denunciare le discriminazioni e ingiustizie a cui sono esposte e sensibilizzare il pubblico sull’argomento; cancellandole con interventi di “maquillage” rischia di portare a risultati opposti: si annulla la denuncia e con essa lo stimolo a un pensiero consapevole e costruttivo. È valorizzando le diversità, non annullandole, che si impara a rispettarle attraverso una presa di coscienza e l’evoluzione positiva degli atteggiamenti e dei comportamenti.

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