GUIDO GOZZANO

di Andrea Simi
Questa cosa vivente detta guidogozzano” come lui stesso si definisce, ebbe una vita breve, di soli trentadue, anni a cavallo tra l‘800 e il ‘900. Gran parte di questa vita –gli ultimi dieci anni – la visse con la consapevolezza di essere malato di una tubercolosi che lo avrebbe condotto a fine precoce; la sua morte probabilmente fu anche affrettata da una condotta di vita piuttosto scapigliata, per usare un termine in linea con i tempi.
Gozzano restò sempre fedele alla sua figura di dandy, come ci viene tramandata: un ragazzo di buoni natali, piuttosto bello, esile, molto ben vestito e compiaciuto che si muoveva con eleganza e leggerezza nella vita sociale e in quella letteraria.
Gozzano era certamente consapevole di non essere un grandissimo artista ma sapeva essere molto acuto e autoironico.
Sovente nelle antologie scolastiche è etichettato come un poeta crepuscolare di buoni e sdolcinati sentimenti, ma questo ritratto è tutt’altro che veritiero: in realtà il dandy è un dilettante per natura, che non si prende troppo sul serio e con la sua scrittura aggraziata graffia e morde, anche se educatamente. E’ ben consapevole di avere poco futuro e per questo non ha programmi ambiziosi: gli bastano l’orizzonte del suo ambiente snob e provinciale e la sua città, capitale decaduta alla periferia d’Europa. E ciò nonostante abbia viaggiato non poco, fino nella lontana India, nella speranza che il clima caldo potesse giovargli e rallentare il progresso della malattia.
Qui di seguito riporto due componimenti che mostrano come il Nostro fosse ben provvisto di ironia: nel primo, “Totò Merùmeni”, è facile cogliere molti tratti della sua fisionomia caratteriale, non ultimo quella propensione agli amori ancillari poco problematici che è l’oggetto del secondo, dedicato alle “cameriste” ( un modo affettato per dire cameriere).
Infine, poiché incombe il Natale (e poiché sono stato in tal senso stimolato), ho voluto accostare ai versi – laici e irridenti – appena citati quelli, manierati e odorosi d’incenso (e mirra, perché no?) de “La notte santa”. Con l’avvertenza che anche in questi – sotto la patina liscia dei buoni sentimenti- si può cogliere l’incresparsi di un sorriso, appena accennato e che sarebbe troppo definire beffardo.
Totò Merùmeni.
i.
Col suo giardino incolto, le sale vaste, i bei
balconi secentisti guarniti di verzura,
la villa sembra tolta da certi versi miei,
sembra la villa-tipo, del Libro di Lettura….
Pensa migliori giorni la villa triste, pensa
gaie brigate sotto gli alberi centenari,
banchetti illustri nella sala da pranzo immensa
e danze nel salone spoglio da gli antiquari.
Ma dove in altri tempi giungeva Casa Ansaldo,
Casa Rattazzi, Casa d’Azeglio, Casa Oddone,
s’arresta un automobile fremendo e sobbalzando,
villosi forestieri picchiano la gorgòne.
S’ode un latrato e un passo, si schiude cautamente
la porta…. In quel silenzio di chiostro e di caserma
vive Totò Merùmeni con una madre inferma,
una prozia canuta ed uno zio demente.
ii.
Totò ha venticinque anni, tempra sdegnosa,
molta cultura e gusto in opere d’inchiostro,
scarso cervello, scarsa morale, spaventosa
chiaroveggenza: è il vero figlio del tempo nostro.
Non ricco, giunta l’ora di «vender parolette»
(il suo Petrarca!…) e farsi baratto o gazzettiere,
Totò scelse l’esilio. E in libertà riflette
ai suoi trascorsi che sarà bello tacere.
Non è cattivo. Manda soccorso di danaro
al povero, all’amico un cesto di primizie;
non è cattivo. A lui ricorre lo scolaro
pel tema, l’emigrante per le commendatizie.
Gelido, consapevole di sè e dei suoi torti,
non è cattivo. È il buono che derideva il Nietzsche
«…in verità derido l’inetto che si dice
buono, perchè non ha l’ugne abbastanza forti….»
Dopo lo studio grave, scende in giardino, gioca
coi suoi dolci compagni sull’erba che l’invita;
i suoi compagni sono: una ghiandaia rôca,
un micio, una bertuccia che ha nome Makakita….
iii.
La Vita si ritolse tutte le sue promesse.
Egli sognò per anni l’Amore che non venne,
sognò pel suo martirio attrici e principesse,
ed oggi ha per amante la cuoca diciottenne.
Quando la casa dorme, la giovinetta scalza,
fresca come una prugna al gelo mattutino,
giunge nella sua stanza, lo bacia in bocca, balza
su lui che la possiede, beato e resupino….
iv.
Totò non può sentire. Un lento male indomo
inaridì le fonti prime del sentimento;
l’analisi e il sofisma fecero di quest’uomo
ciò che le fiamme fanno d’un edificio al vento.
Ma come le ruine che già seppero il fuoco
esprimono i giaggioli dai bei vividi fiori,
quell’anima riarsa esprime a poco a poco
una fiorita d’esili versi consolatori….
v.
Così Totò Merùmeni, dopo tristi vicende,
quasi è felice. Alterna l’indagine e la rima.
Chiuso in sè stesso, medita, s’accresce, esplora, intende
la vita dello Spirito che non intese prima.
Perchè la voce è poca, e l’arte prediletta
immensa, perchè il Tempo – mentre ch’io parlo! – va,
Totò opra in disparte, sorride, e meglio aspetta.
E vive. Un giorno è nato. Un giorno morirà.
Elogio degli amori ancillari
I.
Allor che viene con novelle sue,
ghermir mi piace l’agile fantesca
che secretaria antica è fra noi due.
M’accende il riso della bocca fresca,
l’attesa vana, il motto arguto, l’ora,
e il profumo d’istoria boccaccesca…
Ella m’irride, si dibatte, implora,
invoca in nome della sua padrona:
«Ah! Che vergogna! Povera Signora!
Ah! Povera Signora!…» E s’abbandona.
II.
Gaie figure di decamerone
le cameriste dan, senza tormento,
più sana voluttà che le padrone.
Non la scaltrezza del martirio lento,
non da morbosità polsi riarsi,
e non il tedioso sentimento
che fa le notti lunghe e i sonni scarsi,
non dopo voluttà l’anima triste:
ma un più sereno e maschio sollazzarsi.
Lodo l’amore delle cameriste!
La notte santa
– Consolati, Maria, del tuo pellegrinare!
Siam giunti. Ecco Betlemme ornata di trofei.
Presso quell’osteria potremo riposare,
ché troppo stanco sono e troppo stanca sei.
Il campanile scocca
lentamente le sei.
– Avete un po’ di posto, o voi del Caval Grigio?
Un po’ di posto per me e per Giuseppe?
– Signori, ce ne duole: è notte di prodigio;
son troppi i forestieri; le stanze ho piene zeppe
Il campanile scocca
lentamente le sette.
– Oste del Moro, avete un rifugio per noi?
Mia moglie più non regge ed io son così rotto!
– Tutto l’albergo ho pieno, soppalchi e ballatoi:
Tentate al Cervo Bianco, quell’osteria più sotto.
Il campanile scocca
lentamente le otto.
– O voi del Cervo Bianco, un sottoscala almeno
avete per dormire? Non ci mandate altrove!
– S’attende la cometa. Tutto l’albergo ho pieno
d’astronomi e di dotti, qui giunti d’ogni dove.
Il campanile scocca
lentamente le nove.
– Ostessa dei Tre Merli, pietà d’una sorella!
Pensate in quale stato e quanta strada feci!
– Ma fin sui tetti ho gente: attendono la stella.
Son negromanti, magi persiani, egizi, greci…
Il campanile scocca
lentamente le dieci.
– Oste di Cesarea… – Un vecchio falegname?
Albergarlo? Sua moglie? Albergarli per niente?
L’albergo è tutto pieno di cavalieri e dame
non amo la miscela dell’alta e bassa gente.
Il campanile scocca
le undici lentamente.
La neve! – ecco una stalla! – Avrà posto per due?
– Che freddo! – Siamo a sosta – Ma quanta neve, quanta!
Un po’ ci scalderanno quell’asino e quel bue…
Maria già trascolora, divinamente affranta…
Il campanile scocca
La Mezzanotte Santa.
È nato!
Alleluja! Alleluja!
È nato il Sovrano Bambino.
La notte, che già fu sì buia,
risplende d’un astro divino.
Orsù, cornamuse, più gaje
suonate; squillate, campane!
Venite, pastori e massaie,
o genti vicine e lontane! Non sete, non molli tappeti,
ma, come nei libri hanno detto
da quattro mill’anni i Profeti,
un poco di paglia ha per letto.
Per quattro mill’anni s’attese
quest’ora su tutte le ore.
È nato! È nato il Signore!
È nato nel nostro paese!
Risplende d’un astro divino
La notte che già fu sì buia.
È nato il Sovrano Bambino.
È nato!
Alleluja! Alleluja!

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