FERNANDO PESSOA

di Andrea Simi


Come è noto Fernando Pessoa scrisse sotto numerosissimi eteronimi (ne sono stati censiti circa centoquaranta): Álvaro de Campos, Ricardo Reis, Alberto Caeiro e Bernardo Soares sono solo i principali, e più noti.

Un eteronimo differisce da uno pseudonimo perché non rappresenta un semplice schermo per nascondere il nome del vero autore che non vuole farsi riconoscere. A ogni eteronimo corrisponde una diversa identità, uno stile, un modo di pensare, una persona immaginaria. Come scrisse Luciana Stegagno Picchio “Ad ognuno di essi (Pessoa) attribuisce una faccia, una scheda anagrafica, un lavoro, un segno zodiacale. Ricardo Reis è un po’ più basso di lui ed è un medico espatriato; Álvaro de Campos è un ingegnere, il poeta della modernità portoghese; Bernardo Soares è un aiuto-contabile in una ditta di tessuti che ama scrivere il suo journal intime utilizzando solo la prosa, con gli occhi rivolti verso il cielo di Lisbona; Alberto Caeiro è il “maestro di tutti”, un poeta bucolico, che spiega con la sua poesia la ricerca dell’essenzialità.

Pessoa stesso ne dà la cifra in una sua lettera: “Come scrivo col nome dei tre? . Caeiro per pura e insperata ispirazione, senza sapere né prevedere che mi metterò a scrivere. Ricardo Reis, dopo una astratta deliberazione, che subito si concretizza in un’ode. Campos, quando sento un improvviso impulso a scrivere, anche se non so che cosa. (Il mio semieteronimo Bernardo Soares, che d’altronde in molte cose si assomiglia con Alvaro de Campos, appare sempre mentre sono stanco e insonnolito, quando le mie qualità le mie capacità di ragionamento e inibizione sono un po’ affievolite; quella prosa è un vaneggiamento costante.).”

E, ne “Il libro dell’inquietudine”, scritto proprio come Bernardo Soares, rimasto incompiuto e pubblicato postumo, si analizza così: Ho creato in me diverse personalità. Creo costantemente personalità. Ogni mio sogno, appena lo comincio a sognare, è incarnato in un’altra persona che inizia a sognarlo, e non sono io. Per creare mi sono distrutto: mi sono così esteriorizzato dentro di me che dentro di me non esisto se non esteriormente. Sono la scena viva sulla quale passano svariati attori che recitano svariati drammi”.

Dal groviglio inestricabile della sua frammentata personalità sono uscite splendide pagine di poesia, come quella che segue (di Alvaro de Campos, qui nella mia traduzione), dove il continuo incontro con la città è anche occasione di incontro con i tanti “di sé” che si muovono su quel medesimo sfondo:

Lisbon Revisited

Nulla mi lega a nulla.

Voglio cinquanta cose a un tempo.

Bramo con un’angoscia di fame di carne

quel che non so cosa sia –

definitamente l’indefinito…

Dormo inquieto e vivo nel sognare inquieto

di chi dorme inquieto, mezzo sognando.

Mi hanno chiuso tutte le porte astratte e necessarie.

Hanno abbassato tende dal di dentro di ogni ipotesi che avrei potuto

vedere dalla via.

Non c‘è nel vicolo che ho trovato il numero di porta che mi han dato.

Mi sono svegliato alla stessa vita a cui mi ero addormentato.

Perfino i miei eserciti sognati hanno subìto sconfitta.

Perfino i miei sogni si sono sentiti falsi nell’essere sognati.

Perfino la vita tanto desiderata mi stanca; perfino questa vita…

Comprendo a intervalli sconnessi;

scrivo negli intervalli della stanchezza;

e perfino un tedio del tedio mi getta sulla spiaggia.

Non so che destino o futuro compete alla mia angoscia senza timone;

non so che isole del Sud impossibile mi aspettano naufrago;

o che palmeti di letteratura mi daranno almeno un verso.

No, non so né questo né altro né nessuna cosa.

E nel fondo del mio spirito, dove sogno quel che ho sognato,

nei campi estremi dell’anima, di dove ricordo senza motivo

(e il passato è una nebbia naturale di lacrime false),

nelle strade, nei sentieri delle remote foreste

ove ho supposto il mio essere,

fuggono in rotta, ultimi resti

dell’illusione finale,

i miei eserciti sognati, sconfitti senza essere esistiti,

le mie coorti ancora da esistere, disperse in Dio.

Torno un’altra volta a vederti

città della mia infanzia paurosamente perduta.

Città triste e allegra, qui sogno un’altra volta.

Io? Ma sono lo stesso che qui è vissuto, che qui è tornato,

e che qui è tornato a tornare, e a tornare,

e qui di nuovo è tornato a tornare?

O siamo, tutti gli Io che qui sono stato o sono stati,

una serie di grani-enti rinserrati da un filo-memoria,

una serie di sogni di me per qualcuno che è fuori di me?

Torno un’altra volta a vederti;

col cuore più lontano e l’anima meno mia.

Torno un’altra volta a vederti – Lisbona e Tago, e tutto –,

passante inutile di te e di me,

straniero qui come dappertutto,

tanto casuale nella vita come nell’animo,

fantasma errante in saloni di ricordi,

con rumore di topi e di legni che scricchiolano

nel castello maledetto del dover vivere…

Torno un’altra volta a vederti,

ombra che passa attraverso ombre, e brilla

per un momento a una funebre luce ignota,

e penetra nella notte come una scia di una barca si perde

nell’acqua che non si sente più.

Torno un’altra volta a vederti,

ma, ahi! non mi rivedo!

Si è rotto lo specchio magico in cui tornavo a rivedermi,

e in ogni frammento fatidico vedo solo un pezzo di me –

un pezzo di te e di me!




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