FERITO A MORTE DI RAFFAELE LA CAPRIA
di Elisabette Marini

Il primo libro di cui scriverò in questa rubrica è ormai un classico della letteratura italiana, che ha segnato la vicenda letteraria del suo autore, Raffaele La Capria, oltre che la vita di generazioni di italiani.
Alla prima edizione nel Maggio del 1961 di Bompiani, in meno di un anno seguirono altre 12 edizioni.
Premio Strega 1961, questo libro ha recentemente avuto una seconda giovinezza, quasi una rinascita, a seguito della morte del suo autore avvenuta il 26 giugno 2022 all’età di quasi 100 anni. L’ultima edizione è del 2022 ad opera della Mondadori con la prefazione di Sandro Veronesi.
Molti gli articoli e le commemorazioni dedicate dai mass media a La Capria, noto alle cronache rosa anche per essere stato lungamente sposato con l’attrice Ilaria Occhini. Della sua opera narrativa, che ha praticamente coinciso con questo importante romanzo, non ci resta molto altro. Mentre numerosissime sono le sue testimonianze nelle traduzioni, nella saggistica e nel giornalismo. Alla scrittura di soggetti e sceneggiature cinematografiche – alcune delle quali di notevole importanza e divenuti dei veri pilastri della cinematografia italiana, come “Mani sulla città” di Francesco Rosi – andrebbe dedicato un intero saggio.
Invero sarebbe una forzatura definire FERITO A MORTE un romanzo, in quanto siamo in presenza di un libro decisamente atipico e per molti aspetti lontano dalla tradizione.
La scrittura, modernissima, risente del clima e del fervore culturale degli anni in cui fu scritto, quando tanti autori si misuravano con tecniche di scrittura innovative ed originali.
La mancanza di una trama lo incasella in una categoria letteraria che sarebbe più corretto definire “pittura d’insieme”.
Al centro del racconto c’è Napoli che non si fa trama ma filo conduttore.
C’è Napoli, con i suoi gruppi sociali e i suoi stili di vita.
C’è uno spazio temporale limitato (dalla fine della guerra ai primi anni 60).
Ci sono i luoghi eleganti e alla moda (Circoli come il Savoia e l’Italia, i bar Middleton e Moccia, e qualche sortita a Positano e a Capri).
C’è Napoli, che cattura come una “foresta” dentro cui perdersi, sentendosi contemporaneamente sia protetto che esposto.
Non esiste un io narrante o un narratore esterno. Diverse voci raccontano in apparente disordine, compiendo spesso salti temporali e rendendo, soprattutto all’inizio, ardua la lettura. Ma chi con costanza, rileggendo anche più volte lo stesso periodo, riesce a penetrare nei meandri della scrittura e delle voci che si accavallano, arriva a cogliere picchi di assoluta bellezza e si trova immerso in quella realtà napoletana in totale compartecipazione con i personaggi e gli accadimenti.
Non esistono dialoghi organizzati, ma frasi virgolettate, casuali, semplici pensieri trascritti come se fossero frutto di una conversazione, e in alcuni casi in discontinuità con la narrazione stessa. Il linguaggio incredibilmente immediato e spontaneo è la vera particolarità di questo libro. Eppure è il frutto di 10 anni di analisi, di paziente limatura al fine di spogliarlo di tutto il superfluo.
Non esiste un vero e proprio protagonista. Molti personaggi appaiono casualmente nel corso del dipanarsi del racconto e acquistano o perdono peso nel suo procedere. Anche questa scelta rende la lettura difficile in quanto i vari comprimari o comparse vengono citati uno dietro l’altro, indipendentemente dalla loro importanza all’interno della narrazione, descrivendone più che le caratteristiche fisiche o psicologiche il “peso” o quantomeno il ruolo acquisito all’interno del gruppo sociale che è, verrebbe da dire, il vero protagonista di questo libro.
Questo gruppo così variegato per età, formazione culturale, situazione economica è l’ossatura di tanti romanzi, film e racconti italiani degli anni post bellici. I suoi membri sono definiti a volte vitelloni a volte gagà. Si tratta di figure che chiunque abbia passato, in vacanza o in città, parte del proprio tempo nei circoli sportivi e nei ritrovi più eleganti non può non avere incontrato.
Come dice La Capria ci troviamo di fronte non a qualche giovane immaturo, ma a intere generazioni di immaturi. Che vivono a pieni polmoni il nulla, gratificati dall’accettazione nel gruppo e dal ruolo in esso ricoperto.
Le dinamiche sono sempre uguali e i personaggi degli archetipi: il figlio di papà danaroso ma un po’ imbranato; il mitico bellissimo e affascinantissimo affabulatore Sasà che riesce a ”svoltare” inviti, a catturare donne, a scalare ambienti esclusivi; il suo emulo alle prime armi (Ninì); l’intelligente colto, politicamente orientato a sinistra, che disgustato lascia il gruppo di perdigiorno per conquistarsi un posto nel mondo a Milano (Gaetano); e poi Massimo, il cripto personaggio principale, verrebbe da dire l’alter ego di La Capria, che combattuto tra il fascino delle ore passate a pesca e con gli amici al circolo e l’ansia del futuro, decide di dedicarsi al giornalismo a Roma, ferito a morte dalla mancanza di Napoli, la città “che ti ferisce a morte o ti addormenta”. Napoli che lo ha avviluppato con le sue spire orientate su un passato e un presente vuoti, ma proiettate verso un futuro segnato da ricordi struggenti.
Ricordi in cui il mare di Napoli e le giornate di pesca subacquea segnano in modo indelebile l’animo di Massimo.
Momenti considerati nella prima edizione del 1961 così fondamentali da portare l’editore a riprodurre in copertina (come è ben visibile nella foto) il ”Fischzauber” di Paul Klee.
Durante la pesca Massimo è come sdoppiato. Vive in acqua momenti meravigliosi. La caccia alla spigola e al polpo sono narrati con un realismo e un lirismo assoluti. Ma la pesca è anche la concretizzazione delle sue occasioni perdute. Alla spigola enorme che gli sfugge, per un attimo di esitazione, corrisponde l’eterno desiderio di conquista di Carla di cui è innamorato. Per Massimo ciò che avviene in acqua è magnifico, ovattato, godibile mentre ciò che accade fuori dall’acqua è brutale (il polpo con il tentacolo spezzato e l’occhio pendulo, il pesce contorto nell’asfissia), difficile, irraggiungibile.
In estrema sintesi, questo bellissimo libro racconta, attraverso una concreta critica sociale, i comportamenti banali, ripetitivi e misogini di un gruppo di uomini in una Napoli anni ‘50 sospesa tra le sue bellezze e le sue miserie.
Ma una analisi attenta non può prescindere da ciò che, invece, il libro trascura, dimentica, forse sarebbe più corretto dire, ignora.
Mai viene dato spazio a una donna che abbia una sua dignità, che abbia un ruolo di personaggio, che sia almeno considerata come un essere umano.
Le ragazze appaiono evocate come oggetti del desiderio: la scelta della bella dell’estate; la moglie infedele di un socio del circolo; la ricca che porta Sasà in vacanza…
Anche Carla, l’occasione mancata di Massimo, viene descritta da Massimo stesso con una caratteristica fisica” un odore-tepore di uccellino …” mentre il gradasso Guidino la nomina solo per vantarsi di averla “sverginata”. Siamo di fronte al trito concetto di donne oggetto, di donne fragili, di donne da deridere pubblicamente. E la derisione pubblica si abbatte su tutte: siano esse navigate amanti o ingenue fanciulle alla prima esperienza.
Nessuna di loro ha un ruolo attivo nel racconto. Sono nomi vuoti a cui corrisponde il ruolo di bella preda o di facile preda, ma sempre e comunque preda!
Questo il triste quadro sulla condizione della donna circa sessanta anni fa, quando il pensiero comune, anche tra le righe di libri così moderni e di scrittori autorevoli e sensibili come La Capria, era monodirezionale. In presenza di una cultura per lo più gestita e orientata dagli uomini, alla donna veniva negata la dignità di essere sensibile, sfaccettato e complesso. La prima ed immediata catalogazione era quella sessuale: potenziale oggetto del desiderio o no. Questo ovviamente riferendosi sempre e solo a donne terze, estranee. Mamme, sorelle e mogli erano intoccabili e sotto la “custodia cautelare” dei maschi di famiglia.
Quanta strada è stata fatta. Quanti meriti hanno le nostre madri! Ma non si deve abbassare la guardia. Il cammino è ancora molto lungo e periglioso.