DI FRECCIA E DI GELO

di Elisabetta Marini


I parametri per giudicare piacevole un libro sono certamente personali, in quanto ognuno di noi attribuisce pesi propri ai vari elementi compositivi. Il libro d’altra parte – come si dice comunemente – è di chi lo legge e non di chi lo scrive.
Nel caso di questo scritto di Piero Lotito, il mio giudizio è certamente positivo proprio per il grande numero di parametri personali da esso soddisfatti: la scrittura facile, fluente, non affettata; l’argomento assolutamente insolito e originale; la trama avvincente che tiene in sospeso nonostante l’epilogo sia già noto a tutti; l’approfondita contestualizzazione che invoglia all’approfondimento. E questa voglia di approfondimento, a mio avviso, è un grande pregio in quanto spinge a cercare la verifica delle informazioni lette e ad arricchire la propria conoscenza dell’era storica narrata.
Il libro ipotizza una delle possibili cause che spinsero, presumibilmente intorno al 3100 a. C. – nel periodo di passaggio dal tardo neolitico all’età del bronzo -, un uomo di circa 45 anni, età avanzata per l’epoca, a scappare tra le nevi eterne per sfuggire – ahimè inutilmente- ai suoi assassini.
Otzi, questo il nome dato alla mummia riemersa dai ghiacci del Similaun nelle Alpi Altoatesine nel 1991, era presumibilmente un diverso. Un cacciatore nel periodo in cui l’homo sapiens stava trasformandosi in pastore e contadino. Un conoscitore della montagna tanto da cercare la salvezza tra i ghiacci eterni, portando con sé un corposo equipaggiamento, piuttosto che tra i boschi che avrebbero permesso più facilmente la sopravvivenza.

Otzi è una mummia speciale. La sua mummificazione avviene per disidratazione e non per mezzo di unguenti, come faranno poco tempo dopo gli egizi. Il suo corpo, ridotto ora a 13 kg – dai circa 50 iniziali – non è privato degli organi interni e quindi negli ultimi 20 anni è stato fonte di grandi scoperte per gli studiosi di varie scienze oltre la paleontologia.
E così Lotito nel creare Ots, il suo personaggio, utilizza tutte le informazioni che il corpo di Otzi ha rivelato. Il nostro Ots lamenta frequenti contrazioni e dolori addominali perché in Otzi sono stati trovati parassiti intestinali. Ha dolori articolari e alla schiena come Otzi, nel cui corpo sono stati riscontrati una sessantina di “tatuaggi”. Più probabilmente, come ipotizzato da Lotito, cicatrici di incisioni o ustioni poi “medicate” con cenere, praticate per curare i dolori alla schiena e alle articolazioni di cui Otzi sicuramente soffriva.
Lotito partendo da tutte queste verità e rivelazioni, conoscendo i progressi di civilizzazione e di socializzazione raggiunti dalle popolazioni di quel territorio in quell’era, ipotizza la probabile vita di un uomo diverso, costretto ad abbandonare il suo villaggio perché braccato dai propri assassini.
La diversità che l’autore immagina è tutta psicologica. In tempi in cui non vigevano leggi, se non quelle per una basica convivenza nel villaggio, sul cui rispetto vegliava il capo villaggio; in tempi in cui il clima e la natura potevano essere nemici acerrimi; in tempi in cui la sopravvivenza era il pensiero dominante nella mente dei suoi coevi; la sensibilità attribuita dall’autore a Ots non poteva essere né capita né accettata.

E qui sta la doppia anima del libro. Da una parte un resoconto preciso ed esaustivo degli usi e dei costumi degli abitanti del piccolo villaggio impegnati in faccende giornaliere come levigare i pugnali di selce, affilarli con il ritoccatore, utilizzare utensili in creta, ottenere barattando pelli carne e cereali oppure i primi oggetti in rame (in questo caso un’ascia che non verrà sottratta a Otzi dai suoi assassini). Dall’altro lato la parte immaginifica che dà a Ots un animo sensibile e affettuoso, che gli fa ricordare con nostalgia il padre – anche se usava bastonare lui e la madre. Lo fa restare accanto alla madre anziana e malata. Gli fa rimpiangere l’amicizia di Ief, trasformatosi in suo acerrimo nemico. Ma l’autore spinge la sensibilità di Ots così oltre i suoi tempi da renderlo sensibile, affascinato e prigioniero della bellezza che scopre prima in Alesh – moglie di Ief da lui amata segretamente – e poi nella maestà di un grande cervo con un enorme palco di corna. Ne è talmente affascinato da preferire perdere l’opportunità di ricavare tanti pezzi di corna, materiale durissimo e utile per lavorare la selce, piuttosto che uccidere e deturpare tanta bellezza.

Infine, tutto il libro è permeato da un amore sconfinato per la natura. Ots si fonde con la natura, si perde nei paesaggi in cui le valli si susseguono alle cime delle montagne in un rincorrersi senza fine. E la natura in questo libro è amica, è generosa, dona bacche e radici per nutrirsi, funghi da usare come esca del fuoco, prede da mangiare, pelli da indossare, piume per perfezionare il volo delle frecce, rami per creare archi, catrami da cui trarre unguenti curativi, ceneri disinfettanti. Anche gli alberi hanno ruoli diversi ma sempre importanti: il tasso – ritenuto velenoso – utile per costruire l’arco di Ots, il frassino per fare frecce dritte, l’acero per le sue miracolose foglie che non bruciano, la betulla per la sua corteccia magica in quanto – per la sua elasticità – è in grado di mantenere la forma del tronco da cui deriva, il cirmolo per la sua protezione (durante la fuga Ots accende il fuoco sotto un grande cirmolo, un enorme e maestoso tetto che, filtrando il fumo, lo rende invisibile agli inseguitori).

Ma anche i minerali sono salvifici: la selce, che può essere aggressiva per creare armi, diventa amica se usata calda per curare dolori muscolari o alle ossa. La scheggia delle faville che permette di accendere il fuoco, la creta con cui creare ciotole e utensili. Un amore profondo quello di Ots per la natura e per la montagna che non vive mai come ostile ma sempre come una grande alleata in cui perdersi, ritrovandosi. Un legame così stretto che fa tornare alla mente, mutatis mutandis, il meraviglioso inno alla natura di Paolo Cognetti ne “Le otto montagne”, la cui lettura consiglio nella rubrica SCELTI PER TE.




SCELTI PER TE

Le otto montagne, di Paolo Cognetti, ed. Einaudi, 200 pagine, pubblicato nel 2016.

Libro imperdibile per gli amanti della montagna, vincitore del Premio Strega nel 2017 e tradotto in 35 lingue. Paolo Cognetti, generosamente, attraverso la tenera amicizia tra il cittadino Pietro e il montanaro Bruno conduce il lettore in alta quota per condividere le meravigliose scoperte e le travolgenti esperienze vissute dai due ragazzi. Dal libro è stato tratto un film, a mio avviso, non dello stesso livello del libro. Ma d’altra parte come possono le immagini trasmettere le sensazione vissute durante una passeggiata tra i boschi, l’orgoglio provato alla fine della prima scalata, il senso di potenza avuto nel raggiungere una cima?

La bambina di Odessa, di Tiziana Ferrario, ed. Chiarelettere, 240 pagine, pubblicato nel 2022.

Tiziana Ferrario, giornalista e scrittrice, narra con rigore storico la vita complessa e tutta in salita della sua ex insegnante Lydia Buticchi Franceschi nata a Odessa da famiglia italiana. Il libro ripercorre quel terribile periodo in cui si passò dalla contestazione degli studenti – contro ogni tipo di autorità – e dagli scioperi selvaggi alla nascita dei movimenti studenteschi e – a seguire – al terrorismo e alle Brigate Rosse. L’uccisione di Roberto – il figlio ventenne – nel 1973 davanti all’università Bocconi, causata da un proiettile calibro 7,65 sparato ad altezza uomo da una pistola della polizia, significherà per Lydia l’inizio di un iter giudiziario che la coinvolgerà per oltre 20 anni. Il colpevole non sarà mai individuato ma lo stato ammetterà la propria responsabilità sia nel causare la morte di Roberto che nel depistare le indagini.


mail: elisabettamarini@womenlife.it