D’ARRIGO
di Andrea Simi
Stefano D’Arrigo, siciliano dello Stretto è noto ai più per un’opera in prosa, il monumentale romanzo “Horcynus Orca”, che rappresenta certamente uno snodo significativo nella letteratura italiana del novecento, soprattutto nel campo della ricerca e dell’innovazione della lingua. Ma è stato anche, diversi anni prima, l’autore di un volume di raffinate, struggenti, forti poesie dal titolo” Codice siciliano”.
“Horcynus Orca” riprende il tema omerico del ritorno: non si narra il nostos di un eroe, però, ma quello di un uomo comune, ‘Ndrija – cioè Andrea – nei difficili giorni immediatamente successivi all’armistizio del 1943. E il finale non è il trionfo come per Odisseo, ma la più definitiva delle sconfitte poco dopo aver varcato la soglia di casa.
La bellissima “Sui prati ora in cenere di Omero”, qui di seguito riportata aveva già affrontato il tema del rientro, dolce e nostalgico, dopo la tempesta della guerra: “lei, madremaga…in quella casa/ di stanza in stanza ricordata a mare”;“La voce, la sua voce che ci chiama/ nelle notti di luna sullo Stretto,/ quando piangere s’odono i delfini…”; “Siamo a questo punto, dove si muore/ d’improvvisa dolcezza domestica/ se la spoglia di un grido sullo stretto/ si leva a voce di sirena e chiama/ nella sera il nostro nome all’incanto,…”. In molti hanno visto, a ragione, in questi versi sognanti il germoglio dell’opera maggiore.
Sui prati, ora in cenere, di Omero
Erano stati guerrieri con gli Dei,
da dieci anni amici miei, marinai
che io seguivo nei versi d’Omero
sopra il mare Peloro come il vino,
dove una voce di seno si buscava
i favori del vento e la giornata,
la vita dei miei compagni e la mia.
La voce, la sua voce che ci chiama
Nelle notte di luna sullo Stretto,
quando piangere s’odono i delfini
sul nostro petto smorzandosi infine,
era di quella ovatrice in sospiri
che occhieggia molle flautando in mare,
lei madremaga che migra per la casa
e ha un ventre dorato, una Pleiade.
Forse donna è fede in una casa,
col suo profilo intessendo e stessendo,
perpetuità una sirena, forse,
una Fata Morgana in quella casa,
di stanza in stanza ricordata a mare
che al vano della finestra ricama
intorno al suo desiderio, al suo sguardo:
quell’uomo, il padre dei sui figli, mentre
commosso guarda il fumo sopra il tetto.
A questo punto del viaggio, in Sicilia,
non siamo mai partiti, siamo attorno
a un fuoco d’inverno, in un familiare
odore di mele e di fichi d’india,
ascoltiamo la vita crepitare
come gemma nell’occhio della madre.
Viviamo in isola come in Eliso,
con un gallo che ci porta la luce
nel becco come preda di delizie.
Insieme palpitiamo in un paese
Che ciascuno riconosce come suo,
per un albero, il disegno di un cuore,
un antico pensiero nel paesaggio,
panorama a ricordo dal balcone.
Sotto quel sole noi siamo spigati
Che ora è la nostra armatura e spada,
in quella voce del nostro dialetto
che è miele sulle nostre ferite
e altro miele spalmato sulle zanne.
Dopo dieci anni, al mezzo dello Stretto,
ci gridiamo addosso la nostalgia
di quel profilo che tesse in Eliso,
del cane sulla soglia che ci aspetta
ormai per morire ai nostri piedi
in un breve rantolo di fedeltà
Siamo a questo punto dove si muore
d’improvvisa dolcezza domestica,
se la spoglia di un grido sullo stretto
si leva a voce di sirena e chiama
nella sera il nostro nome all’incanto,
donna da quella ringhiera di odori,
gelsomino o basilico, in Sicilia.
Qui, dove m’assomiglio, in patria,
sui prati, ora in cenere, d’Omero,
io da una guerra reduce, e da quante
un gran figlio mi ricorda mia madre,
perduto con lo scudo sullo scudo,
desidero tornare spalla a spalla
coi miei amici marinai che vannosempre più dentro nei versi, nel mare.
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