CVATAEVA E ACHMATOVA

di Andrea Simi


Credo che Il fatto di intraprendere una collaborazione con una rivista scritta e letta soprattutto da donne mi imponga di far esordire questa rubrica di incontri con la poesia parlando di loro. E ho scelto di farlo tracciando, con pochi segni, in modo lasciare che parlino soprattutto i loro versi, la vicenda di due grandi donne e poetesse fiorite in Russia negli anni immediatamente precedenti il crollo del regime zarista, anni caratterizzati da molto fervore nell’ambiente letterario.

Le loro vite state irrimediabilmente segnate dalla rivoluzione e dall’avvento dei bolscevichi: hanno avuto in comune il destino di trovarsi dalla parte dei perdenti.

La prima, Marina Cvetaeva, moglie di un ufficiale dell’Armata Bianca, Efron, condusse una militanza attiva che la portò presto, con il marito,“fra asilo ed esilio” a Berlino, poi a Praga e infine a Parigi.

La seconda, Anna Achmatova, ebbe soprattutto la colpa di aver sposato Gumilev, un poeta controrivoluzionario fucilato nel 1921. Rimase sempre in patria. Negli anni bui delle purghe staliniane suo figlio Lev fu più volte imprigionato e processato.

La Cvetaeva, invece, dopo che il marito era stato accusato (probabilmente a ragione) di essere divenuto una spia del regime, cadde in disgrazia nell’ambiente degli intellettuali esuli russi a Parigi. Si decise alla fine a rientrare in Unione Sovietica nel 1939. Ma per lei le cose non migliorarono, anzi, in patria le ristrettezze economiche e l’isolamento si fecero sempre più gravi. Finì per impiccarsi, nel 1941, nel villaggio di Elebuga, in Tartaria dove era sfollata. Non aveva ancora 50 anni. Non molto diverso fu all’inizio il destino di Anna Achmatova che dovette aspettare, per poter tornare a pubblicare, gli anni del cosiddetto “disgelo” post staliniano. Solo nella parte finale della sua difficile vita raggiunse così la fama che meritava, in patria e all’estero. Visse fino al 1966.

Ho scelto due poesie giovanili della Cvetaeva tratte dai “ versi per Blok” (Blok era il poeta di riferimento per i giovani russi negli anni prima della rivoluzione: fu definito “il tragico tenore dell’epoca”).

Della Achmatova ho invece preferito versi di un’età più matura, e cioè la dedica del poemetto Requiem scritto al tempo del processo e della detenzione del figlio tra il 1935 e il 1940.

Le traduzioni sono di Michele Colucci


Marina Cvetaeva

Da “Versi per Blok”

1

Il tuo nome è una rondine nella mano,

Il tuo nome è un ghiacciolo sulla lingua.

Un solo unico movimento delle labbra.

Il tuo nome sono cinque lettere.

Una pallina afferrata al volo,

un sonaglio d’argento nella bocca.

Un sasso gettato in un quieto stagno

singhiozza come il tuo nome suona.

Nel leggero schiocco degli zoccoli notturni

Il tuo nome rumoroso rimbomba.

E ce lo nomina lo scatto sonoro

del grilletto contro la tempia.

Il tuo nome- ah, non si può! –

Il tuo nome è un bacio sugli occhi,

sul tenero freddo delle palpebre immobili.

Il tuo nome è un bacio dato alla neve.

Un sorso di fonte, gelato, turchino.

Con il tuo nome il sonno è profondo.

2

Da me a Mosca – le cupole ardono,

da me a Mosca – le campane suonano,

e sepolcri in file ci sono da me,

e zarine dormono in essi e zar.

E tu non sai che all’alba nel Cremlino

più leggeri si respira che su tutta la terra!

E tu non sai che all’alba nel Cremlino

io prego te – fino all’aurora.

E tu passi sopra la tua Neva

nel momento che sopra la Moscova

sto io, con la testa reclina,

e chiudono le palpebre e i lampioni.

Con tutta l’insonnia io ti amo,

con tutta l’insonnia ti ascolto

nel momento che per tutto il Cremlino

si vanno svegliando i campanari.

Ma il mio fiume – con il tuo fiume,

ma la mia mano – con la tua mano

non s’incontreranno, mia allegria, finché

l’aurora non avrà raggiunto – l’aurora.


Anna Achmatova

Da “Requiem”

Dedica

Davanti a questa piena piegano i monti,

non scorre il grande fiume,

ma sono saldi i lucchetti del carcere,

dietro di essi “le tane dell’ergastolo”

e un’angoscia mortale.

Per qualcuno alita fresco il vento,

per qualcuno si strugge il tramonto,

noi non sappiamo, siamo ovunque le stesse,

sentiamo solo stridori odiosi di chiavi

e pesanti passi di soldati.

Ci si levava come a una messa mattutina,

si andava per un’inselvatichita capitale,

lì ci si incontrava più inanimate dei morti;

il sole più occiduo e la Neva più brumosa,

ma da lontano canta sempre la speranza.

La sentenza…E subito sgorgano lacrime;

oramai separata da tutti,

come se dal cuore con dolore le strappassero la vita,

come se rozzamente la stendessero supina,

ma cammina… Vacilla… Sola…

Dove sono ora le amiche involontarie

dei miei due anni infernali?

Cosa scorgono nella tormenta siberiana,

cosa intravedono nel disco della luna?

A loro io mando il mio addio.