BORIS GODUNOV

di Pietro Pellegrino


Il Boris Godunov, che il 7 dicembre scorso ha inaugurato la stagione lirica della Scala , è  un dramma epico in un prologo e quattro atti composto da Musorgskij nel 1869, ispirato dalla omonima tragedia in versi di Puskin e dalla Storia dello Stato Russo del letterato e storico Karamzin. Il libretto è stato scritto dallo stesso Musorgskij. L’opera, che rievoca fatti reali accaduti in Russia fra l’ultimo scorcio del ‘500 e l ‘inizio del ‘600, ripercorre l’ascesa al trono del potente boiardo Boris, dopo la morte violenta dello zarevic Dimitrij, figlio di Ivan il Tenibile e legittimo erede al trono.

La verità sull’assassinio dello zarevic, di cui Boris è il mandante, viene però rivelata dal monaco Pimen al novizio Grigorij, che fugge in Polonia, fingendosi il defunto zarevic, per suscitare una rivolta contro lo zar illegittimo.  Boris ossessionato dal fantasma di Dimitrij muore angosciato dal rimorso. Considerato uno dei capolavori assoluti della musica russa, l’opera ebbe un successo contrastato. Il Teatro Mariinsky ne rifiutò la rappresentazione perché ritenuta fortemente “trasgressiva” rispetto alla tradizione musicale dominante. Le ragioni del” gran rifiuto” toccavano insieme la struttura tematica e quella musicale del Boris, né vi erano estranee implicazioni politiche ed ideologiche.  Mettere in scena la presa del potere cruenta da parte di Boris, depennare  dalla trama dell’opera la figura femminile centrale nell’opera italiana, francese e tedesca, con conseguente esclusione del ruolo sopranile dominante,(la prima donna) , scandagliare  la psicologia del profondo di Boris, ambiguamente diviso fra ossessione di potere e   angoscia del rimorso , con una capacità di analisi quasi dostoevskiana (un sorta di delitto e castigo con forte impronta religiosa), introdurre con funzione di coprotagonista  le masse popolari, umorali e ondivaghe, che fanno da sfondo   al dramma individuale di Boris, trasporre infine una materia storica e psicologica cosi dura e urtante per la  sensibilità di un pubblico educato ai modelli dell’opera  italiana e francese, in ritmi, tonalità, colori orchestrali aspri e scuri,  di una asciuttezza  a tratti ruvida , costituiscono tutti insieme e singolarmente   gli elementi di novità radicale  del Boris che  spiegano, senza giustificarlo, il diniego del Mariinskij alla rappresentazione dell’opera.  E lo stesso Musorgskij fu costretto a prenderne atto e a mettere mano a una seconda stesura “normalizzata” del Boris, più conforme al gusto dominante (fu rivista la distribuzione delle scene, la partizione degli atti e soprattutto introdotta una figura femminile di spicco, una principessa polacca avida di potere, quasi un pallido rovescio della grandezza tragica di Boris, con rituale duetto d’amore con il falso Dimitrij).   La nuova versione “riveduta e corretta” venne rappresentata al Mariinskij nel 1874, con grande successo di pubblico. Ma non fu questa l’ultima edizione “ne varietur” del Boris. Nel 1896 RimskijKorsakov, che non aveva lesinato critiche alla forma musicale del Boris, ne avviò la rielaborazione dando al tessuto orchestrale una lucentezza timbrica e una ricchezza sonora estranee alla più asciutta scrittura della prima e seconda versione, che valsero però ad assicurargli un immediato successo di pubblico e critica. Non a caso quella di Korsakov è rimasta per moltissimi anni la versione più eseguita in teatro e nelle sale di incisione discografiche. Basti pensare alla magnifica registrazione di Karajan con Nicolaj Ghiaurov nel ruolo eponimo.

Soltanto nel 1979 Abbado ha riproposto alla Scala la versione originale del 1869, secondo un criterio di recupero filologico dell’identità originaria del Boris, depurato dalle manipolazioni e ibridazioni, attuate negli anni precedenti, fra le varie versioni dell’opera.

Sulla stessa linea si pone ora Chailly, riproponendo per la inaugurazione della Scala l’Ur-Boris, cioè la versione originaria del 1869 (non è un caso che Chailly fosse assistente di Abbado nella edizione scaligera del 1979).

Va detto subito, per quanto scontato, che Il successo di una rappresentazione dipende in toto dalla calibrata sinergia fra direttore d’orchestra, musicisti, cantanti e coro. Nel Boris scaligero ne abbiamo la prova “udibile”. Cominciamo dal direttore. Chailly ha reso con fedeltà filologica il colore scuro, il timbro ruvido a volte urticante della orchestrazione musorgskijana, ha dato spessore a certe sonorità e dissonanze che anticipano la musica novecentesca (Stravinsky ), senza però rinunciare a sottigliezze e morbidezze  timbriche , a suoni alleggeriti e sfumati , quasi spiritualizzati, laddove  la situazione scenica e il testo lo richiedevano. In questo Chailly ha interpretato al meglio la “poetica” di Musorgskij, nel quale la parola ha valore scenico fondamentale, e la linea melodica non vi si sovrappone, ma la asseconda, la modella, la scava in profondità, potenziandone la carica espressiva.

Quanto al protagonista, nessun dubbio che Abdrazakov sia il miglior Boris oggi in circolazione, per presenza scenica, bellezza e profondità di timbro, ricchezza di armonici, naturalezza e facilità di emissione. Con una linea di canto duttile e sfumata ha saputo scavare nelle pieghe del personaggio alternando, secondo la situazione scenica e psicologica del dramma, emissioni scure e ferrigne a suoni soffiati impalpabili, quasi introiettati.

Robusto e ricco di note dolenti, appassionate e malinconiche da veggente solitario il Pimen di Ain Anger che interpreta il ruolo del monaco.

Ambiguo, mellifluo insinuante, a tratti mefistofelico nella mimica facciale il Grigorij del tenore Golovnin, (il falso Dimitrij), dalla voce morbida e espressiva. Imponente soprattutto nella scena dell’incoronazione e nel seguito dell’opera il coro che ha una centralità tematica e musicale complementare a quella del protagonista.

Gustosa e per niente macchiettistica Maria Barakova nel ruolo dell’ostessa della locanda. Applausi alla fine dell’opera, non di stima, come si diceva nelle cronache teatrali di una volta, ma sinceri appassionati e prolungati   agli artisti e alle maestranze in passarella sul palcoscenico. Segno che il pubblico non solo ha apprezzato l’esecuzione vocale ma ne ha colto gli ingredienti ideologici e psicologici: il dramma e la solitudine del potere con la sua carica di sopraffazione e violenza, la falsificazione della storia ufficiale, l’angoscia distruttiva del rimorso come nel Macbeth verdiano. Ma questo delle affinità elettive con l’opera verdiana (spesso richiamate, ma che andrebbero giudiziosamente definite) è discorso da rimandare ad altra, più adatta occasione.


Biografia di Pietro Pellegrino

Nato a Roma, dopo la maturità classica si è laureato in Lettere Moderne all’ Università La Sapienza di Roma, dove ha conseguito successivamente un Master di II livello in traduzione specializzata per la lingua tedesca. Funzionario di banca, ha lavorato per molti anni nel settore estero, occupandosi dei rapporti con le banche europee, coltivando in parallelo i suoi interessi: la lingua e   la cultura tedesca, la linguistica italiana e l’opera lirica. Da anni è attivo come traduttore free lance di testi e documenti dal tedesco in italiano. La passione per la musica classica e soprattutto per il teatro lirico ha radici nella sua adolescenza; in età matura si è aggiunta quella per il tennis che pratica nel più puro spirito decoubertiniano.