ARTEMISIA GENTILESCHI

di Irene Niosi


 Artemisia Gentileschi è considerata una delle più grandi pittrici italiane ma in passato, anche a causa della vicenda dello stupro che segnerà la sua vita, la sua arte venne sottovalutata e conobbe lunghi periodi di oblio. Oggi la lettura romantica della sua figura, dal carattere volitivo e ribelle alle regole limitanti imposte allora alle donne aspiranti pittrici, la rende affascinante ai nostri occhi per la sua determinazione a voler sfondare in un campo -quello dell’arte – che   era una prerogativa destinata agli uomini. Questa stessa sua determinazione l’aiuterà a ottenere giustizia durante il processo, il primo documentato della storia, dove imperterrita continuerà ad accusare il suo violentatore, persino quando, mettendo in dubbio la sua testimonianza, le verranno spezzate le dita delle mani.  E’ a partire dalla seconda metà del ‘900 che si è riacceso un grande interesse sulle sue opere con gli studi a lei dedicati da Roberto Longhi. Dopo gli approfondimenti di questi ultimi anni finalmente molti studiosi le hanno riconosciuto, come interprete donna, il ruolo importante che ha avuto nell’evoluzione dell’arte caravaggesca. Nel 2020 la National Gallery di Londra le ha tributato per la prima volta una grande monografia e contemporaneamente    a Milano, con la mostra organizzata a Palazzo Reale dal titolo “Le signore dell’arte”, ha dominato la scena in mezzo ad altre grandi artiste italiane.  Infine, nel  marzo scorso a Roma, a Palazzo Barberini  è giunta la sua  consacrazione, attraverso il confronto  diretto con le  opere dei  più grandi pittori italiani e stranieri che si cimentarono  sul tema della storia dell’eroina biblica, da cui esce trionfante fin dal titolo: “Caravaggio e Artemisia: la sfida di Giuditta. Violenza e seduzione nella pittura tra Cinquecento e Seicento” col meritato riconoscimento di competere con l’arte del più acclamato genio di tutti i tempi che, di questo soggetto, ci ha lasciato una rivoluzionaria interpretazione rompendo tutti i precedenti schemi narrativi. Questo capolavoro fu realizzato dal Merisi nel 1599, l’anno in cui le cronache riportano la decapitazione a Castel Sant’Angelo della sfortunata Beatrice Cenci, oggi ricordata come la prima vittima di femminicidio, a cui sia il geniale pittore, sia la stessa Artemisia di soli sei anni, portata in braccio dal padre, avevano preso parte.  Era infatti una consuetudine del tutto naturale per gli artisti dell’epoca, assistere alle uccisioni di piazza, grazie alle emozioni che suscitavano che potevano rivelarsi di grande utilità per l’atto creativo. In entrambi questi capolavori che suscitano forti emozioni per la violenta resa realistica, si assiste alla   cronaca in diretta dell’omicidio che deriva, per alcuni studiosi, proprio da questa esperienza condivisa.  La storia  della  bella eroina biblica che per salvare il suo popolo uccide l’invasore, viene  però narrata  da due angolazioni diverse:  Caravaggio si concentra sulla figura di  Oloferne  ormai agonizzante  e  in questo modo  sembra volersi interrogare sul mistero della morte, Artemisia invece, in una scena  ancora più  cruda, affida il ruolo di protagonista a Giuditta, rappresentandola per la prima volta  come una figura femminile forte e determinata a consumare la  vendetta sul tiranno invasore  che,  mentre sta esalando l’ultimo respiro, la guarda stupito da tanto accanimento. Ma per apprendere appieno la grandezza di questa pittrice, è necessario valutare   il suo percorso formativo che nasce nel clima che si respira all’indomani della Controriforma. Roma, nella prima metà del ‘600, è il centro più importante di tutta Europa, oggetto di un rinnovamento spirituale che inaugura la straordinaria e irripetibile stagione barocca. I pontefici e le loro famiglie, quali i Barberini, i Chigi e i Pamphilj si rivelano mecenati molto accorti che si servono dell’arte per valorizzare la posizione della Chiesa cattolica nel mondo e qui   giungono artisti da tutta Italia e dall’estero attratti dagli innumerevoli cantieri che vengono aperti per le opere soprattutto di carattere sacro. In questo contesto ricco di fermenti innovativi, muove i primi passi Artemisia che nasce a Roma nel 1593 e, giovanissima, inizia a dipingere copiando le opere degli artisti che frequentano la bottega del padre Orazio, un pittore di origini pisane, di formazione tardo- rinascimentale, che incoraggia il suo talento e l’avvia, sotto la sua guida, allo studio della pittura. Dopo soli tre anni ha maturato una padronanza tecnica che già rivela quelle che diverranno le caratteristiche distintive del suo temperamento artistico.  Le sue opere, sono pervase da un naturalismo che deriva dalla sua particolare abilità nel dipingere su fondi scuri, figure che abbagliano per la loro lucentezza, grazie a un sapiente impasto di colori dalle tinte vive. Nella sua prima opera certa, firmata e datata 1610 “Susanna e i vecchioni”, una tela di grandi dimensioni, oggi conservata nella Collezione Graf von Schönborn che si trova a Pommersfelden in Germania, sono presenti elementi tali da non escludere che, mentre la dipinge, Artemisia sia già stata fatta oggetto di molestie da parte del suo stupratore. La scena tratta da episodi dell’Antico Testamento narra la storia   di una giovane e bellissima donna, insidiata da due vecchi. Quello coi capelli scuri, assomiglia al pittore Agostino Tassi, collega e amico di suo padre e suo insegnante che la violenterà l’anno successivo, nel maggio 1611. I due uomini, in posizione centrale non più laterale come da tradizione, incombono su Susanna seduta ai loro piedi, che alza le mani atterrita come a volersi proteggere. In questa composizione appare evidente che Artemisia ha già   fatto suo il realismo caravaggesco che coniuga con altre novità stilistiche portate a Roma dal pittore bolognese Annibale Carracci, così colma di pathos che risulta probabile un’autoidentificazione    con la vittima, per il bisogno di liberarsi dal trauma della violenza da poco subita. Per lo scandalo che solleva   il processo, nonostante il Tassi sia riconosciuto colpevole, Artemisia si vede a costretta a lasciare Roma e si stabilisce a Firenze, accompagnata da una lettera scritta da suo padre, indirizzata a Cristina di Lorena moglie di Cosimo II, e viene accolta alla corte dei Medici dove stringe amicizia con intellettuali e scienziati. Con Galileo, in particolare, manterrà un legame che durerà per tutta la vita dell’illustre pisano. Il nipote di Michelangelo sarà per lei un secondo padre, uno fra i primi suoi estimatori che le commissiona “l’Allegoria dell’Ingegno” per  la galleria  del soffitto di Casa Buonarroti dove probabilmente raffigura  sé stessa nei panni di  una giovane e sensuale donna nuda, che spicca, per il  suo raffinato naturalismo, accanto alle  opere realizzate  dai suoi colleghi pittori. Il soggiorno fiorentino si rivelerà molto importante per la sua crescita personale. Quando giunge da Roma, seppur dotata di un talento precoce per la pittura, è quasi analfabeta e in quell’ambiente colto sente il bisogno di studiare, impara a leggere, a scrivere e a comporre versi.  Di questo periodo va ricordata la Conversione della Maddalena” (1617/1620) che presenta la peccatrice come una cortigiana in abito da sera con un’audace scollatura. Pur con questa visione dissacrante, l’opera svela ugualmente il tormento interiore della Maddalena che   guarda verso l’alto mentre si batte il petto per riconoscere i suoi peccati.  A Firenze Artemisia si distingue per una serie di ritratti dedicati a figure femminili tratti dall’Antico Testamento che sono molto apprezzati. Nel 1616 sarà la prima   artista donna in assoluto   che entrerà a far parte dell’Accademia del Disegno di Firenze, un riconoscimento che le viene conferito per la fama raggiunta con la già citata opera di Giuditta e Oloferne di cui il Granduca le commissiona una copia, quella che oggi si trova alle Gallerie degli Uffizi. Sempre sull’onda del successo di questo soggetto, all’eroina biblica dedica un’altra bellissima composizione “Giuditta con la sua ancella” conservata alla Galleria Palatina di Firenze, in cui viene rappresentato il momento successivo alla decapitazione di Oloferne, quando le due donne abbandonano il luogo dove   si è consumato il delitto e si voltano indietro per paura di essere scoperte. L’ancella porta con sé la cesta del bucato, un oggetto di uso quotidiano dove è deposta la testa mozzata del tiranno, mentre Giuditta   tiene appoggiata sulla spalla, quasi con disinvolta noncuranza, la spada, il corpo del reato, con la quale ha appena consumato la sua vendetta. L’intera narrazione è affidata a questi due artifici in perfetto stile caravaggesco che per contrasto imprimono nel loro realismo una forte intensità drammatica a tutta la composizione. Da   Firenze Artemisia soggiorna per tre anni a Venezia, poi va   a Genova dove presumibilmente incontra Rubens.  Nel suo girovagare   trova sempre il modo di confrontarsi con le maestranze locali per assimilare le tendenze più in voga che riesce a tradurre in un suo personale linguaggio. Per un certo periodo fa il tentativo di tornare a vivere a Roma, con la speranza di poter lavorare ai grandi cicli pittorici delle chiese, che invece vengono commissionati ai suoi colleghi maschi. Delusa, decide di trasferirsi a Napoli. Sono di questo periodo alcune importanti committenze come “L’Annunciazione”, “L’Adorazione dei Magi” e “San Gennaro e i compagni gettati nell’anfiteatro” per la Cattedrale di Pozzuoli. Nella città partenopea, per le sue movenze stilistiche vivaci e aggressive riceve tante gratificazioni ed   è molto considerata anche dai maggiori esponenti del caravaggismo locale che frequenta e che coniano per lei il nomignolo di pittora a sottolineare il suo carattere quasi maschile. Nel 1636  raggiunge suo padre a Londra  e insieme realizzano il Trionfo della Pace e delle Arti per la Queen’s House di Greenwich a loro commissionata da  Re Carlo I,  raffinato collezionista che della pittrice   possedeva  il celebre  “’Autoritratto in veste di Pittura” oggi conservato  nella collezione di Kensington Palace, un’ allegoria di mirabile composizione, in cui  Artemisia  scardina   la tradizionale posizione frontale  che veniva usata per gli autoritratti attraverso  l’ingegnoso  utilizzo  di diversi specchi che   mette  in sequenza  per  trovare la giusta prospettiva  e raffigura forse sé  stessa  di profilo, impegnata a dipingere che non guarda in direzione di  chi la osserva. Quando nel 1639 muore il padre, Artemisia lascia Londra e si stabilisce definitivamente a Napoli. Di questo suo ultimo periodo è proprio di questi giorni la bella notizia    che altre   quattro attribuzioni di sue opere sono presenti nella mostra in corso a Napoli alle Gallerie d’Italia di Via Toledo, fino al 19 marzo prossimo, organizzata in collaborazione con la National Gallery di Londra, il Museo e Real Bosco di Capodimonte, l’Archivio di Stato di Napoli e l’Università degli Studi “L’Orientale” che ha riunito insieme i lavori da lei realizzati tra il 1638 e il 1654. Sulla sua morte non si ha notizia, non si conosce nemmeno la data esatta, ma sarà sempre ricordata come una figura di artista innovatrice e l’eroina femminista ante litteram. Il tentativo di   offrire una panoramica della sua produzione che risulti esaustiva, spesso lascia insoddisfatto chi scrive di lei, data la elevata qualità artistica delle sue opere che meritano di essere oggetto una ad una di un’accurata analisi. Alla luce degli ultimi ritrovamenti ci lasciamo consolare dalla certezza che Artemisia, con la sua arte immortale, riserverà ancora tante straordinarie sorprese sia alla critica, sia al suo pubblico che la ama e la segue.


Susanna e i vecchioni
Pommersfelden, Collezione Graf von Schönborn
Olio su tela

Giuditta che decapita Oloferne
Napoli, Museo di Capodimonte
Olio su tela

Giuditta con la sua ancella
Firenze, Galleria Palatina
Olio su tela