ANTONIO DONGHI, IL SILENZIO MAGICO
di Irene Niosi
Le opere del romano Antonio Donghi (16 marzo 1897- 16 luglio 1963) ci affascinano per quella sua semplicità narrativa, in cui il tempo sembra sospeso. Il suo stile descrive una realtà distaccata ed estraniante, definito dall’ossessiva attenzione alla forma, dalla minuziosa descrizione di un particolare, sottende un’attesa, ci si aspetta che qualcosa possa accadere a quelle figure immobili e silenti dagli sguardi attoniti, a quegli alberi dalle fronde non agitate dal vento e trattati come fossero nature morte. Questa è l’impressione che ci accompagna nel visitare, a Palazzo Merulana di Roma, una piccola selezione di dipinti presentati nella retrospettiva: “Antonio Donghi. La Magia del silenzio”, provenienti da importanti collezioni, come il significativo nucleo della Fondazione Elena e Claudio Cerasi, quelli prestati dalla Banca d’Italia, da UniCredit, dalla GNAM di Roma e dalla Comunale d’Arte Moderna di Roma. Il curatore Fabio Benzi assicura che oggi siamo in pieno “revival” donghiano. Oggi il pittore viene finalmente riabilitato e confermato come figura di spicco del Realismo Magico, dopo essere caduto in un imperdonabile oblio per circa una ventina d’anni. Il percorso espositivo inizia con due piccole tele raffiguranti “la Basilica di Massenzio” del 1920 e “la Fontana dei cavalli marini” datata 1921-1922, ancora d’impostazione ottocentesca, antecedenti a quel suo radicale cambio di stile, a testimoniare del successivo, quanto improvviso – e che a guardare il resto delle opere esposte – anche provvido cambiamento, avvenuto dopo pochi anni dai suoi esordi, tanto repentino da suscitare interrogativi mai spenti. A causa del suo stile, spesso incompreso, anche la sua appartenenza culturale ha finito per sollevare dubbi, ciò nonostante il pittore in vita ebbe la sua dose di successo, e come vedremo, fu apprezzato anche all’estero.
Spiace ricordare che a rendergli omaggio dopo la sua morte fu per prima la Francia nel 1981 con la mostra parigina “Les Realismes” al Centre Beaubourg, mentre per onorarlo nella sua città natale bisognerà aspettare il 1985 con l’esposizione di sessanta dipinti organizzata a Palazzo Braschi dove Maurizio Fagiolo dell’Arco, nella presentazione in catalogo scrive: «Le figure di Donghi non partono dal vero per rielaborarlo in modo iconico o armonico, ma partono dall’esperienza metafisica: per ritrovare, delle statue e dei manichini, una probabile carnalità. Basta fissare attentamente l’occhio su quelle inverosimili donne, per comprendere che non si tratta delle sapienti figure postribolari dei tedeschi, alle quali si è ridata un’anima, ma sono proprio le “muse inquietanti” alle quali si è ridato un corpo». Negli anni Ottanta la critica è divisa: c’è chi lo considera di diritto facente parte del Realismo Magico, mentre altri gli attribuiscono un suo legame con la metafisica. La mostra odierna, che rimarrà aperta fino al 24 maggio, vuole far luce proprio su questi opposti giudizi. Benzi sostiene la tesi classica, ovvero che fin da giovane Donghi rimane indissolubilmente legato al Realismo Magico e che quel suo cambiamento radicale avvenne proprio in virtù del fatto che rimase folgorato dalle opere del suo compagno Ubaldo Oppi presentate nel 1922 a Roma alla casa d’Arte Bragaglia, artista riconosciuto oggi come aderente a questo stile pittorico e letterario, introdotto in Italia da Massimo Bontempelli che va sotto il nome di Realismo Magico. Gli anni della formazione di Donghi sono successivi a un periodo molto vivace per l’arte italiana: il futurismo aveva rotto gli schemi azzerando il passato, inseguendo la modernità attraverso il dinamismo e la velocità, parallelamente Giorgio De Chirico con la sua Metafisica al contrario proponeva un’arte immobile e muta mantenendo vivo il riferimento con la tradizione classica. E nella loro contrapposizione Futurismo e Metafisica apriranno le porte anche ad altre tendenze artistiche importate dall’Europa. Dopo un periodo di studio, ai suoi esordi Donghi guarda all’arte tedesca e francese, le opere di quel periodo restano in bilico tra la maniera secessionista e il postimpressionismo.
Sappiamo che l’artista viaggia, è curioso ed è a conoscenza delle nuove istanze che arrivano da oltralpe. Studia, sia pur con senso critico, la nostra pittura antica “senza esagerare” come chiarirà lui stesso, con buona pace delle maldicenze di coloro che lo accusavano di essere ignorante. Dai suoi archivi infatti è emerso che possedeva la tessera della Hertziana di Roma, la Biblioteca più prestigiosa per lo studio dell’arte. Sono le due personali romane del 1924, la prima alla Sala Stuart, ma soprattutto quella del dicembre dello stesso anno, dove espone alla galleria di Anton Giulio Bragaglia, a riscontrare un grande consenso sulla scena romana e non solo. Tra i primi, sarà il critico tedesco Franz Roh a parlare del nostro artista come appartenente al Realismo Magico nato in Germania dalla costola della corrente artistica “Neue Sachlichkeit,” come stile pittorico e letterario. Nel suo libro “Magischer Realismus” pubblicato nel 1925, tratta dell’interpretazione della realtà vista in modo estraniante, una realtà avvolta nel mistero perché non nasce nel mondo rappresentato ma dietro ad esso. Negli anni che vanno dal 1924 al 1932 Donghi mette a segno una serie di successi: Nel 1926 inaugura a Boston la mostra itinerante “Exhibition of Modern Italian Art”. Questa esposizione segna l’inizio della fortuna critica di Donghi negli Stati Uniti. Nel 1929 prende parte alla “Prima mostra del Sindacato Laziale Fascista” e Roberto Longhi, il critico più autorevole del secolo scorso, scrive di lui: «Di sempre maggiore artificio pare, a prima vista, il Donghi. Giovi almeno riconoscere – ciò che non si vuole da molti – che l’artificio lo spinge a un iniziale impulso di naturalezza. La semplicità sempre più arida delle sue forme ci pare infatti da intendere non come un mero formalismo alla maniera dei neoclassici più noti e insopportabili, ma come il risultato di una volontà nello scegliere edaccomodare l’ambiente più favorevole allo spiegamento della propria adorata specialità: la quale, è strano non lo si riconosca, è quella di un pittore di “valori”». Il critico oltre al disprezzo non celato verso il neoclassicismo usato in senso dispregiativo per gli artisti dell’epoca, fa un chiaro riferimento al “rappel à l’ordre“ quella tendenza che attraversa tutti gli anni Venti e Trenta- nata in Francia nel clima generale di ripresa della tradizione antica per il bisogno, dopo lo sfacelo della guerra, di riferimenti stabili, attraendo persino Picasso che abbandonerà il cubismo. A Roma a fare da supporto teorico a questa tendenza sarà la rivista “Valori plastici”, fondata nel 1918 da Mario Broglio, dove collaborano Savinio, De Chirico e Carrà e che porta alla riscoperta del nostro Quattrocento. Il giovane Donghi accoglierà in una sua sintesi queste propensioni e le adatterà al suo stile. A ribadire la sua appartenenza Fabio Benzi analizza un’esaustiva disamina delle opere dei grandi del passato a cui s’ispira il nostro pittore: «che coglie mentre dipingono il silenzio, l’immobilità, il gesto fisso o appena interrotto». Si spazia da Giotto a Piero della Francesca, da Antonello da Messina a Bronzino, da Seurat a Derain. Al pubblico che ancora non lo conosce, piacerà per il suo stile al tempo stesso familiare e misterioso.
Antonio Donghi, La Magia del Silenzio. Roma, Palazzo Merulana, Via Merulana, 121. Dal 9 Febbraio al 26 maggio 2024
In Copertina: Antonio Donghi, Gita in barca, 1934, olio su tela 110x140cm, Fondazione Elena e Claudio Cerasi
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