ALDA MERINI E SYLVIA PLATH

di Andrea Simi


Dopo le due poete russe fiorite nella prima metà del ventesimo secolo, Achmatova e Cvetaeva, in questo numero incontreremo altre due donne tormentate, le cui parabole esistenziali hanno avuto come sfondo la seconda metà del ‘900. Le loro pene non sono però dovute a vicende della storia e della politica, ma a personali turbamenti.

Alda Merini ha condotto una vita difficile, segnata da due lunghi soggiorni in manicomio. Ha messo al mondo quattro figlie che ha amato molto, ma non è stata in grado di occuparsene; sicché esse sono cresciute affidate ad altri. E’ rimasta vedova di un uomo che ha amato per molti anni e che, forse, l’amava, ma di certo non accettava il suo essere poeta e, a volte, era anche violento con lei.

I segni di tutte queste profonde ferite si ravvisano nei suoi versi, duri e secchi, ma allo stesso tempo immaginosi e teneri.

Non leggeremo della Merini le poesie d’amore, che pure sono il nucleo centrale della sua produzione poetica; leggeremo invece un breve componimento che apre uno squarcio sul suo malessere spirituale, prima ancora che psichico.

Sylvia Plath, americana (ma il padre, morto quando lei aveva solo otto anni, era di origini tedesche e le parlava in tedesco) ha avuto una vita breve, segnata dal matrimonio fallito con Ted Hughes.

Ted Hughes, inglese, è stato a sua volta un poeta, molto celebrato, al punto di essere nominato “poeta laureato” dalla regina. Dopo la tragica morte di Sylvia Hughes fu a lungo angosciato dall’idea, quasi ossessiva, di esserne stato la causa.

L’esistenza di Sylvia Plath fu tormentata da un conflitto feroce e irrisolto con la figura paterna, o meglio con un padre immaginato come somma di tutte le figure maschili, autoritario, crudele, nazista, per compensare l’assenza del vero padre defunto (si pensi alla terribile poesia intitolata Daddy), e da una continua pulsione al suicidio, che tentò più volte, fino a riuscire nel suo intento a poco più di 30 anni, nel 1963.

La sua poesia riportata qui di seguito si intitola, significativamente, “Lady Lazarus” ed esprime con chiarezza questa consuetudine con l’idea della morte autoinflitta. Il suicidio viene descritto quasi come un rito di passaggio, tanto che c’è davvero da chiedersi – come d’altra parte hanno fatto molti, mettendo insieme le circostanze della sua fine – se per caso la sua morte non sia stata conseguenza non voluta di quello che nella mente della povera Sylvia avrebbe dovuto essere solo un altro tentativo rituale…


Alda Merini

Pensiero, io non ho più

Pensiero, io non ho più parole.
Ma cosa sei tu in sostanza?
qualcosa che lacrima a volte,
e a volte dà luce…
Pensiero, dove hai le radici?
Nella mia anima folle
o nel mio grembo distrutto?
Sei cosi ardito vorace,
consumi ogni distanza;
dimmi che io mi ritorca
come ha già fatto Orfeo
guardando la sua Euridice,
e cosi possa perderti
nell’antro della follia.


Sylvia Plath

Lady Lazarus

L’ho rifatto.
Un anno ogni dieci
ci riesco –
una specie di miracolo ambulante, la mia pelle
splendente come un paralume nazi,

un fermacarte il mio
piede destro,
la mia faccia un anonimo, perfetto
lino ebraico.
Via il drappo,
o mio nemico!
Faccio forse paura? –
Il naso, le occhiaie, la chiostra dei denti?
Il fiato puzzolente
in un giorno svanirà.
Presto, ben presto la carne
che il sepolcro ha mangiato si sarà
abituata a me
e io sarò una donna che sorride.
Non ho che trent’anni.
E come il gatto ho nove vite da morire.
Questa è la Numero Tre.
Quale ciarpame
da far fuori a ogni decennio.
Che miriade di filamenti.
La folla sgranocchiante noccioline
si accalca per vedere
che mi sbendano mano e piede –
il grande spogliarello.
Signori e signore, ecco qui
le mie mani,
i miei ginocchi.
Sarò anche pelle e ossa,
ma pure sono la stessa, identica donna.
La prima volta successe che avevo dieci anni.
Fu un incidente.
Ma la seconda volta ero decisa
a insistere, a non recedere assolutamente.
Mi dondolavo chiusa
come una conchiglia.
Dovettero chiamare e chiamare
e staccarmi via i vermi come perle appiccicose.
Morire
è un’arte, come ogni altra cosa.
Io lo faccio in un modo eccezionale.
Io lo faccio che sembra come inferno.
Io lo faccio che sembra reale.
Ammetterete che ho la vocazione.
È facile abbastanza da farlo in una cella.
È facile abbastanza da farlo e starsene lì.
È il teatrale
ritorno in pieno giorno
a un posto uguale, uguale viso, uguale
urlo divertito e animale:
“Miracolo!”
È questo che mi ammazza.
C’è un prezzo da pagare
per spiare le mie cicatrici,
per auscultare il mio cuore –
eh sì, batte.
E c’è un prezzo, un prezzo molto caro,
per una toccatina, una parola,
o un po’ del mio sangue
o di capelli o un filo dei miei vestiti.
Eh sì, Herr Doktor.
Eh sì, Herr Nemico.
Sono il vostro opus magnum.
Sono il vostro gioiello,
creatura d’oro puro
che a uno strillo si liquefà.
Io mi rigiro e brucio.
Non crediate che io sottovaluti le vostre ansietà.
Cenere, cenere –
Voi attizzate e frugate.
Carne, ossa, non ne trovate –
un pezzo di sapone,
una fede nuziale,
una protesi dentale.
Herr Dio, Herr Lucifero,
attento,
attento.
Dalla cenere io rinvengo
con le mie rosse chiome
e mangio uomini come aria di vento.


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